Subbuteo

“Just flick to kick”

(slogan sul catalogo del Subbuteo 1972-73)

 

Ognuno di noi ad un certo punto della propria infanzia ha conosciuto un bambino ricco. Quel tipo di bambino che, mentre tu dividevi la stanza con uno o più fratelli, aveva una camera da letto grande come metà del tuo appartamento tutta per sé.

Uno di quelli che si presentava a scuola con delle fiammanti “Adidas Jabbar”, alle quali rispondevi con delle imbarazzanti  finte Superga oppure,  nei migliori dei casi, con un paio di Tepa Sport azzurre.

Insomma, quel ragazzino che ti invitava alla sua festa di compleanno, e mentre tu ti presentavi con una scatola di cioccolatini e una copia (nemmeno illustrata) de “I ragazzi di via Pal”, ad un certo punto realizzavi che probabilmente ad un matrimonio calabrese avresti trovato meno invitati e meno cibo, e forse, stordito dal secondo litro di Coca-Cola (all’epoca per me più rara di un Sassicaia del 84)  ti sembrava di sentire i botti dei fuochi d’artificio che venivano dal salone. Che tra l’altro aveva un soffitto così alto che probabilmente sarebbe bastato per un piccolo spettacolo pirotecnico.

Se non avete mai vissuto dei momenti del genere, dove appunto realizzavate di essere “povero”, probabilmente quel bambino ricco eravate voi.

Il mio habitat naturale era fatto di ragazzini provenienti da famiglie dignitose, quasi tutte composte da almeno quattro persone, di madre lingua veneziana che lasciavano l’italiano agli altri, ai figli degli avvocati o degli ingegneri. Poi i casi della vita mi portarono a frequentare una scuola per ricchi, o presunti tali, di cui ho già parlato nel post dedicato ai Muppets.

Si trattava di una scelta obbligata per poter frequentare la prima elementare con un anno di anticipo, visto che all’epoca le scuole pubbliche non lo permettevano e che le mie maestre d’asilo avevano deciso che fossi  nettamente più dotato dei miei coetanei (che fine abbia fatto tutto questo vantaggio è uno dei miei più grandi misteri).

Comunque in quella scuola cattolica, gestita da suore nella quale si insegnava seguendo l’italianissimo metodo Montessorri (alla faccia della presunta superiorità delle scuole scandinave), venivano mandati i figli della borghesia locale, gente con due cognomi che abitava in palazzi sul Canal Grande, oppure figli di famiglie particolarmente devote o semplicemente i figli unici, una rarità negli anni ’70, ma che evidentemente avevano a disposizione il reddito che normalmente doveva bastare per due o tre figli.

La mia classe aveva tutte queste categorie, e quando iniziai a frequentare le case di alcuni dei miei compagni capii di non essere nato in una famiglia particolarmente ricca.

Fu in terza che arrivò un bambino che divenne uno dei miei migliori amici, veniva da una famiglia altolocata, che aveva girato l’Europa grazie al lavoro di funzionario del padre. Come me aveva anticipato l’anno scolastico e come me (cosa d’altro canto comune) aveva la passione per il calcio. Lui però aveva un particolare unico fra tutti i miei amici, che si dividevano fra Interisti (pochi, incluso me), Juventini (ben di più) e Milanisti (pochissimi): per un motivo mai chiarito era uno sfegatato tifoso della Lazio.

Così nei pomeriggi primaverili del dopo scuola, mentre rincorrevamo un Tango sgonfio nel campiello sotto casa sua, io cercavo di imitare le prodezze di Carlo Muraro da Gazzo, Padova, lui quelle di Vincenzino d’Amico, anche se la sua prima scelta sarebbe stata Andrea Agostinelli, nel quale però non poteva immedesimarsi per via di quell’invidiabile caschetto biondo.

Facciata della Chiesa dei Miracoli, Venezia
Facciata della Chiesa dei Miracoli, Venezia

In ogni caso, un giorno venimmo a sapere che l’indomani, nella vicinissima chiesa dei Miracoli (qualcosa come 200 metri dalla nostra scuola) si sarebbe sposato tale Pietro Ghedin da Scorzè, terzino sinistro della Società Sportiva Lazio.  Assieme agli sposi e ai loro parenti era prevista la presenza di gran parte dei suoi colleghi, così tutta la mattina cercammo di abbozzare un piano di evasione che ci avrebbe permesso di vedere da vicino i vari  Lionello Manfredonia, Luigi Martini, capitan Giuseppe Wilson, Vincenzo D’Amico, Bruno Giordano e ovviamente il biondissimo Andrea Agostinelli.

Non so se Suor Adeodata (la nostra maestra) avesse intuito qualcosa, sta di fatto che la mattina del matrimonio non ci tolse lo sguardo di dosso, come nemmeno Gentile avrebbe fatto con Maradona e Zico ai mondiali del 1982, così il nostro piano di evasione fallì miseramente e, mentre Garlaschelli & c. lanciavano il riso agli sposi, noi probabilmente eravamo alla presa con qualche esercizio di matematica.

L’altra passione che ci accomunava era un gioco da tavolo che in quegli anni era all’apice del successo, un gioco esclusivamente per maschietti, ovvero il Subbuteo (che essendo di origini inglesi va pronunciato con l’accento sulla prima “u”).

Uno dei primi, rarissimi, kit di Subbuteo, con i giocatori e le porte da montare.
Uno dei primi, rarissimi, kit di Subbuteo, con i giocatori e le porte da montare.

Come la Apple ed altre idee geniali, anche il Subbuteo era nato in una specie di garage (precisamente la stanza degli attrezzi a casa della madre), grazie all’intuizione di un impiegato dell’ufficio pensioni, Peter Arthur Adolph, di Tunbridge Wells nel Kent, Gran Bretagna. La seconda guerra mondiale era appena finita, l’allora trentenne Peter non aveva una vita sociale particolarmente animata, oltre al tranquillo lavoro da impiegato la sua unica altra occupazione era l’ornitologia (amava soprattutto collezionare uova di uccelli), da bambino aveva conosciuto un gioco da tavolo chiamato “Newfooty”, nelle lunghe serate da scapolo a casa della madre l’osservò con attenzione e ne capì le potenzialità, trasformandolo in quello che poi sarebbe diventata la sua creatura prediletta.

Finito e testato il primo kit, pensò di brevettare l’invenzione, chiamandola “The Hobby” (che in inglese è la stessa parola usata per il falco lodolaio), ma l’ufficio brevetti non acconsentì all’uso di questo temine perché troppo generico, perciò, da buon ornitologo, Adolph optò per il nome scientifico del falco lodolaio, ovvero Falco Subbuteo.

 

Lo sguardo da tombeur de femmes di Peter Arthur Adolph, al centro, circondato da altri maschi alpha.
Lo sguardo da tombeur de femmes di Peter Arthur Adolph, al centro, circondato da altri maschi alpha.

Il gioco da tavolo ebbe un successo incredibile e crescente, che rese il timido impiegato inglese un uomo ricco e di successo.  Negli anni Adolph creò una serie di “spin off”  applicando il metodo Subbuteo ad una dozzina di altri sport, incluso il cricket, il rugby, il motociclismo, l’hockey e persino il Subbuteo Angling (ovvero la pesca in uno stagno), senza dimenticare un improbabile Subbuteo Journey Into Space.

Fu proprio  negli anni ’70, che  il gioco del Subbuteo arrivò all’apice del suo successo, grazie alla Waddington, la nuova proprietà che aveva acquisito i diritti d’uso da Adolph, che portò il Subbuteo ovunque, organizzando addirittura dei campionati mondiali in concomitanza con quelli della Fifa, sia nel 1974 ( a Monaco) che nel 1978 (a Londra, perché l’Argentina era troppo lontana). Come racconta Daniel Tatarsky nella sua meravigliosa storia illustrata del Subbuteo, “Flick to kick”, nel 1978 esplose anche il talento di un giovane italiano, Andrea Piccaluga (ora professore di economia presso l’Università di Pisa) che vinse il campionato junior e che divenne il testimonial perfetto per quel gioco, tanto da fargli fare una tournée in tutto il Regno Unito, una serie di partite che lo videro sempre vittorioso. Ad alimentare la sua leggenda il geniale direttore del marketing della Waddington, Jim Leng, mise in giro la voce che il dito usato dal giovane italiano era stato assicurato per 1 milione di sterline.

Il campioncino Andrea Piccaluga fra Kevin Keegan e Emlyn Hughes, altro campione del calcio vero.
Il campioncino Andrea Piccaluga fra Kevin Keegan e Emlyn Hughes, altro campione del calcio vero.

Probabilmente la cifra era inventata di sana pianta, un escamotage pubblicitario, ma di certo il Subbuteo fatturava non poco, visto non era affatto un passatempo economico. Anche se sarebbe largamente alla portata dei budget a disposizione dei ragazzini odierni, il gioco era all’epoca relativamente costoso. Infatti il kit che avevo a casa era di seconda mano, regalato da un’altro mio compagno di classe, lui figlio unico, che aveva appena ricevuto una versione più nuova.

Comunque ero in possesso di tutto quello che mi serviva, cioè il panno verde con disegnato il campo, due porte, due squadre complete (anche se qualche giocatore con le caviglie rinforzate dal mastice) e qualche pallina. Il mio unico problema era la densità di popolazione per metro quadrato di casa mia, manco fossi a Portici: 5 persone in meno di 70 metri quadrati che lasciavano pochissimi spazi dove stendere il campo. L’unica opzione percorribile era il tavolo rotondo della cucina che nella versione extralarge permetteva la stesura quasi totale del campo, che alla fine, per via dei quattro angoli che finivano abbondantemente dopo il tavolo, assomigliava di più ad una pista di hockey che ad un campo di calcio.

Per fortuna che c’era il mio amico laziale, che aveva una casa gigantesca, e quando dico gigantesca vi basti pensare che il solo salone principale, i cui due lati corti erano chiusi da due vetrate su archi, era di gran lunga più grande dell’intero mio appartamento.

Ora, bisogna sapere che esistevano tre tipi di proprietari di Subbuteo, c’erano quelli come me, che di volta in volta cercavano supporti per il panno verde, il quale di conseguenza  passava gran parte della propria vita piegato da qualche parte. Poi c’erano quelli che avevano attaccato il “campo” in modo permanente su di un tavola di compensato (di solito tutto tranne le porte), tavola che tenevano sotto il letto oppure in verticale dietro una porta e le squadre conservate nelle apposite scatole in qualche cassetto, come il mio amico figlio unico. Infine c’erano quelli che avevano il campo da Subbuteo sempre a disposizione, con le porte attaccate con le puntine e i 22 giocatori già pronti. Il mio compagno di classe laziale però andava oltre questa terza categoria, infatti lui faceva parte di quei fortunati per i quali il campo non era solamente sempre pronto, ma addirittura era provvisto di tribune con spettatori e luci artificiali  funzionanti, insomma, a parte  i mini fumogeni e le mini cariche della Celere, un perfetto stadio italiano in miniatura.

Ogni occasione era buona per finire a casa sua per giocare a Subbuteo, ma anche ad altro, visto che in realtà quella sua immensa casa era una specie di parco gigantesco, con statue, soffitti altissimi e decine di metri da attraversare di corsa.

Pur abitando nella stessa città, finite le scuole elementari persi le tracce del mio amico ricco, ma non del Subbuteo, che continuai a giocare saltuariamente con altri ragazzini. Certo, ogni tanto ci si incrociava per strada ma niente di più.

Non mi ricordo quando giocai l’ultima partita, probabilmente con la fine delle scuole medie finì anche la mia carriera di “subbuteista”, con buona pace di Piccaluga.

Però in quella casa gigantesca ci ritornai un’altra volta. Penso fosse il mio secondo anno all’università, un’altra delle mie imprese di successo, incontrai il mio amico per strada e mi invitò a pranzo a casa sua, con l’idea di studiare assieme nel pomeriggio.

Era molto cambiato, la vita non ci aveva trattato molto bene, ma se io mi sentivo come una piccola barca in mezzo alla tempesta, lui era un gommone sgonfio in balia di un uragano. In un paio di anni i suoi affetti più cari erano stati spazzati via, e ora abitava da solo in quel gigantesco appartamento.

Le case viste da bambino di solito sembrano molto più piccole quando le rivedi da adulto, e fu così anche in quell’occasione. Certo, i soffitti erano ancora altissimi, i 100 metri quadrati del salone facevano impressione, non quanto mi colpivano da bambino, quando mi sembrava di correre minuti per attraversarlo.

Di quell’ultimo pomeriggio passato assieme ho un ricordo annebbiato. Il silenzio, quello sì me lo ricordo, così come quell’atmosfera fredda, di sconfitta, come se la scomparsa dei suoi genitori fosse amplificata da quelle stanze enormi.

Forse nel mio caso la mia casa era troppo piccola, troppa piena di ricordi per permettere al dolore di entrare.

Mentre ci salutavamo sulla porta del salone guardai l’ultima volta verso l’angolo dove di solito lasciava il campo di Subbuteo con il mini stadio e mini tifosi e gli chiesi se ce l’aveva ancora. Lui mi sorrise, e per un attimo sembrò quel ragazzino con il quale avevo organizzato la fuga per per vedere il matrimonio di un giocatore della Lazio. Mi disse di sì, che da qualche parte doveva avere tutto, forse non le tribune.

Avevo quasi finito di scendere le scale quando  mi disse “Magari la prossima volta ci giochiamo, che dici?”, poi chiuse la porta senza nemmeno aspettare la mia risposta.

Questi Laziali, con loro è sempre il 5 maggio.

 

Un commento Aggiungi il tuo

  1. n. z. ha detto:

    bello e nostalgico…

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