Marcelino, LA e una Peugeot

And the girls on the bus kept laughing at us
As we rode on the 10 down to Venice again
Blaring out the g-funk sipping on juice and gin
Just me and a friend feeling kind of groovy, workin’ on a movie (yeah, right)
But we did nothing, absolutely buttkiss that day
And I’ll say, what the hell am I doing drinking in L.A. at twenty-six?

Drinking in LA – Bran Van 300

La spiaggia di Santa Monica

Marcelino abitava nella Valley, a Los Angeles, a circa 25 chilometri dal ristorante dove entrambi lavoravamo in cucina, io abitavo a meno di 250 metri ma per qualche strano motivo lui riusciva ad arrivare sempre prima di me.

Ogni singolo giorno percorreva quei 50 chilometri (tra andata e ritorno) con la sua Peugeot, e se attraversare Los Angeles tutti i giorni vi sembra una cosa stressante, vi faccio notare che la Peugeot in questione era una vecchia bicicletta, l’unico mezzo di trasporto che Marcelino poteva permettersi.

Al tempo non credo avesse più di cinquant’anni, ma sarà stato il suo sguardo mite, quei baffi da messicano e quell’indefinibile luce da sconfitto che aveva negli occhi, a me, che avevo appena compiuto 18 anni, sembrava un uomo vecchissimo.

Marcelino, in quanto messicano, aveva dieci figli. Un paio di anni prima che io lo conoscessi, il figlio maggiore si era trovato nel momento sbagliato al posto sbagliato. Mentre era ad un barbecue ci fu il più classico dei “drive by shooting”, dei tizi di una gang a bordo di una macchina in corsa svuotarono delle armi semi automatiche su quei ragazzi in festa, e il figlio di Marcelino, che non era affiliato ad alcuna gang, fu colpito a morte. Tutti al ristorante conoscevano questa storia, e ovviamente si guardavano bene dal parlarne in sua presenza.

Tre dei camerieri messicani del ristorante “Peppone”

Un giorno andai al lavoro direttamente dopo un giro al mercatino di Venice Beach, avevo con me i miei nuovi acquisti: due bellissime camicie a scacchi, una bianca e nera e l’altra rossa e nera.

Uno dei camerieri mi fece indossare quella rossonera, chiudendo solamente l’ultimo bottone sul colletto e quelli dei polsini, lasciando tutti gli altri sbottonati, dicendomi che era cosi che i soldados delle gang indossavano quel tipo di camicie. Poi mi mostrò agli altri, dicendo qualcosa del tipo “ecco il nuovo capo della gang veneziana”, facendo ridere tutti, tranne Marcelino. Inutile dirvi che non indossai più quelle camicie fino al mio ritorno in Italia.

Il corrispettivo del mercato di Marghera a Los Angeles, dove ho comperato le due camicie

Marcelino in cucina si occupava delle insalate, di lavare le verdure e di preparare i dolci, o meglio il dolce, perché l’unica cosa che sapeva fare era il tiramisù.

Ogni giorno montava a neve dozzine di albumi, sempre con il frustino a mano, poi era il turno dei tuorli e per rendere il tutto più complicato li sbatteva direttamente assieme al mascarpone e allo zucchero. Ci misi qualche settimana ma alla fine lo convinsi che per fare meno fatica sarebbe stato meglio aggiungere il mascarpone solamente quando aveva finito con le uova.

Andare in giro per Los Angeles in bicicletta come faceva Marcelino era un’impresa piuttosto ardua, lo sapevo per esperienza personale, anche perché lui non si lamentava mai di nulla, e affrontava quella “sgambata” di sessanta chilometri al giorno come si accetta un fato inevitabile, con serenità e modesta rassegnazione.

In realtà io adoravo girare in bicicletta, sfruttavo tutto il mio tempo libero per esplorare quella fetta di città che si trovava attorno al ristorante. Abitando sul Sunset Boulevard (seppur famosa, resta una strada piuttosto stretta per gli standard di Los Angeles) tendevo sempre a scivolare verso la costa, seguendo la dolce discesa che rendeva l’inizio delle mie scorribande più semplice da affrontare. Alla salita e alla relativa fatica ci avrei pensato dopo, al ritorno.

Portavo sempre con me la mia reflex, una Yashica Fx-3 con un obiettivo da 50 mm. Col senno di poi avrei dovuto scattare molte più fotografie, però al tempo si usava la pellicola, con costi e tempi diversi rispetto ad adesso quando, prima di mangiare un toast al bar, gli devi fare un book fotografico.

Gli iconici portici di Venice Beach (qualcuno ha detto Edward Hopper?)

Fin dai miei primi mini tour, fui colpito da dei cartelloni giganteschi raffiguranti il profilo di una donna piuttosto procace, sopra le curve da pin up si poteva leggere, anche a decine di metri di distanza, il suo nome: Angelyne.

Che ci crediate o meno, quell’enorme pubblicità è uno dei colpi di genio dell’advertising dello scorso secolo, la prova che il mestiere di influencer (sì, non fate i boomers, l’influencer è un lavoro) non è un’invenzione dei social di questi ultimi anni, ma in modi diversi esisteva ben prima.

Angelyne ne è l’esempio più incredibile, forse la prima persona ad essere famosa per essere famosa, almeno a questi livelli. La sua ascesa è una di quelle storie che non poteva sfuggire al Poltronauta, ed è una delle poche di successo che leggerete in questo blog.

Adesso sedetevi, prendete i pop corn, e preparatevi ad entrare nel favoloso mondo di questa icona losangelina.

Il billboard con la classica posa di Angelyne

Potrei iniziare la storia di Angelyne dalla fine, cioè dall’articolo apparso su “The Hollywood Reporter” nel 2017 nel quale, dopo un’attività investigativa durata mesi, il giornalista Gary Baum svelò la vera identità di questa icona. Già, perché Angelyne è stata una delle poche figure pubbliche contemporanee il cui passato era avvolto nel mistero, come ancora è per Banksy, oppure per il fondatore di Bitcoin Satoshi Nakamoto.

Ma se il mondo ha dovuto aspettare oltre trent’anni per sapere chi realmente si nascondesse dietro quei cartelloni, credo che voi possiate resistere fino alla fine di questo post.

Le prime notizie di Angelyne risalgono al 1978, quando da “giovanissima” e avvenente ragazza dai capelli biondo platino si esibisce assieme alla band punk rock del suo fidanzato dell’epoca, i Baby Blue.

Come la gran parte delle numerose band punk rock che in quegli anni spuntavano ad Hollywood, anche i Baby Blue erano semplicemente un gruppetto di ragazzi che volevano fare casino. Con ben poco talento, riuscirono ad avere un po’ di visibilità quando decisero di stampare i volantini promozionali con l’immagine di Angelyne.

Nel 1979, poco prima di arrendersi alla loro incapacità, i Baby Blue fanno uscire il singolo “Too Much to Touch”, anche se lo pubblicano direttamente con il nome di Angelyne.

Il passo successivo è l’album solista (questa volta per davvero) uscito nel 1982 intitolato semplicemente “Angelyne”, ma ci vorranno ben quattro anni per vedere il suo secondo lavoro, “Driven to fantasy”, che di fatto chiude la sua breve carriera di cantante.

Nel frattempo era successo qualcosa di inaspettato, che avrebbe cambiato la vita di Angelyne in modo definitivo.

Hugo Maisnik, un tizio che aveva un’agenzia che si occupava di cartellonistica a Los Angeles, aveva notato la bionda e sexy cantante ed aveva deciso di piazzare un gigantesco billbord con la sua immagine e la scritta “Angelyne Rocks” per testare la capacità di “persuasione” di questo tipo di pubblicità. Era il febbraio del 1984 quando Angelyne comparve per la prima volta sul Sunset Boulevard, e da quel momento i cartelloni con la sua immagine si moltiplicarono, diventando parte integrante dello skyline di Los Angeles (a metà anni ’90 erano oltre duecento).

Il vero capolavoro di Angelyne fu quello di inventare un personaggio di fantasia nella culla della finzione, Hollywood, e di renderlo così reale da integrarlo nella cultura pop, e non solo, di Los Angeles. Aveva modificato il suo corpo, creato un’immagine unica e cambiato il suo nome, ed era diventata famosa per essere famosa.

Angelyne nella sua leggendaria Corvette rosa

E quando sei famoso tutti vogliono un pezzettino della tua luce, ed oltre ad apparire nelle pubblicità di aziende più o meno locali, Angelyne iniziò ad essere l’ospite (prezzolata) di tutte le feste e gli avvenimenti che contavano as Los Angeles, dalle prime dei film blockbuster alle feste del jet set.

Nel 2017 esce un articolo su “The Hollywood Reporter” che oltre a svelare al mondo la vera identità di Angelyne, racconta le sue origini che affondano nella più grande tragedia del ‘900.

Il suo vero nome è Renee Tami Goldberg (originariamente Ronia Tamar Goldberg), nata in Polonia l’8 ottobre 1950, figlia di ebrei polacchi che si erano incontrati nel ghetto di Chmielnik durante la seconda guerra mondiale (erano tra i 500 sopravvissuti di una popolazione di 13.000, il resto mandato a morte a Treblinka).

I suoi genitori, Hendrik (alias Heniek o Henryk) Goldberg e Bronia (alias Bronis) Zernicka, avevano sopportato orrori inimmaginabili in una serie di campi di concentramento, prima insieme a Skarzysko, dove il lavoro principale dei prigionieri era quello di produrre munizioni, e poi separati, Hendrik a Buchenwald e Bronia a Bergen-Belsen.

Poco dopo la liberazione, la coppia si sposa nel campo profughi di Foehrenwald in Germania, per tornare nella Polonia post guerra, incredibilmente ancora un posto molto ostile agli ebrei.

Alla nascita della piccola Ronia decidono di emigrare in Israele, finendo in una comunità ultra-ortodossa di ebrei chassidici chiamata Bnei Brak, a est di Tel Aviv, fino al 1959. Poi la partenza via nave da Haifa per New York, da dove si spostarono in modo definitivo in California.

Una giovanissima Angelyne, ancora nei panni di Rene Goldberg

Quando Ronia, che una volta in America aveva cambiato il suo nome in Renee, ha 14 anni la madre muore di cancro, l’anno successivo il padre si risposa con Deborah, una sarta divorziata, anche lei sopravvissuta all’Olocausto. Teenager orfana di madre, padre e matrigna con un numero tatuato sul braccio a ricordare ogni singolo giorno l’orrore dei campi di sterminio (come se ce ne fosse stato bisogno), Renee vive con sofferenza il liceo, e appena diciottenne si sposa con Michael Strauss, rampollo di una ricca famiglia d origine ebraica di Beverly Hills, ma il matrimonio finisce l’anno successivo, nel 1969.

Per un decennio Renee vive nel sottobosco di Hollywood, per poi riemergere come Angelyne, cantante di un gruppo punk rock e infine consacrata come icona glamour.

In qualche modo Angelyne/Renee aveva trasformato l’orrore vissuto dai genitori in un mondo biondo platino e rosa, libero da ogni dolore, semplicemente leggero e colorato, ed aveva finito per diventare il personaggio da lei interpretato.

Angelyne però non si è limitata a popolare i cartelloni e la fantasia dei losangelini, nel 2003 ha deciso di candidarsi a governatore della California, finendo ventinovesima (su 135 candidati) con ben 2.536 voti. Il suo slogan, ovviamente geniale, era: “We’ve had Gray (nome di ex governatore), we’ve had Brown (altro ex governatore), now it’s time for some blond and pink.”

A proposito, pare si sia candidata anche quest’anno (2021 per i posteri).

Negli ultimi anni Angelyne si è anche cimentata come pittrice, inutile dirvi che i suoi quadri sono orribili, e che ovviamente vanno via come il pane, perché sono quadri di una tipa famosa.

A riprova che il Poltroanuta ha fiuto per personaggi importati, vi segnalo che a breve dovrebbe uscire una serie TV sulla sua vita (prodotta dalla stessa Angelyne).

Marcelino era l’antitesi di Angelyne, lui che dell’invisibilità aveva fatto un’arte. Viveva a Los Angeles come altre migliaia di immigrati, alle prese con lavori umili, grati per essere scappati alla miseria e per aver dato una possibilità ai propri figli, non importa quanto dura fosse la vita, quante miglia dovessero pedalare ogni giorno.

Immagino che Marcelino, nei suoi 50 chilometri quotidiani in sella alla sua bicicletta, ogni tanto alzasse gli occhi per guardare i cartelloni con Angelyne, ma non gliel’ho mai chiesto. Certo doveva avere molto tempo per pensare durante i suoi viaggi, un uomo che aveva vissuto dieci battesimi, dieci comunioni, dieci cresime e, purtroppo, un funerale, di ricordi ne aveva sicuramente.

Oppure, forse, pensava alla dritta incredibile sul tiramisù che gli aveva dato quel ragazzino veneziano di diciotto anni.

Marcelino

4 commenti Aggiungi il tuo

  1. Alberto Carnero ha detto:

    Un po’ di superlativi buttati là “alla cazzo”… lunghissimo, interessantissimo, “commoventissimo” (che se esistesse davvero sarebbe pure bruttissimo) Come al solito complimenti (con cui non ci fai nulla). Alla prossima. Buona scrittura. (dal 4 sarò per qualche giorno anch’io a Venezia 😁😁😁) Ciau. alberto

    In data 21 settembre 2021 09:29:48 Il Poltronauta

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    1. Il Poltronauta ha detto:

      Grazie Alberto! I superlativi sono sempre ben accettati! Scrivimi quando sei a Venezia!

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  2. Andrea C. ha detto:

    Bella storia, ben scritta. Ma hai girato il mondo?

    Piace a 1 persona

    1. Il Poltronauta ha detto:

      Grazie! In realtà ho girato un po’, ma il trucco è scriverci un sacco sopra, così sembra molto di più. 🙂

      "Mi piace"

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