I want you more than I need you
I need you so bad
Are you coming back?
Are you coming back?
I’m waiting
Waiting – Alice Boman
Dopo un paio di anni di gavetta, nei primi anni ’90 Antonio Albanese diventa una star della televisione italiana grazie a due trasmissioni leggendarie: “Su la testa” (durata una sola stagione, 10 puntate in tutto) e “Mai dire Gol” (le prime edizioni erano straordinarie).

Albanese inventa delle maschere da commedia dell’arte, prestando loro la sua fisicità unica. In quegli anni scrive anche un spettacolo che gira l’Italia, arrivando fino a Mestre (io c’ero). Uno dei personaggi più riusciti (e che adesso ha praticamente abbandonato, come tutte le sue prime creature) è Alex Drastico, un tamarro palermitano political uncorrect, con tanto di panza (all’epoca finta, ora credo che l’imbottitura sarebbe superflua), sempre impegnato a toccarsi il pacco e a fare commenti sulle dimensioni del suo arnese . Tra le sue battute ricorrenti ce n’è una che mi è tornata in mente in queste settimane, che lui ripeteva ogni qual volta si apprestava a regalarci una perla di saggezza: “Non faccio un cazzo, e penso”.
Non che non stia facendo un cazzo, ma di sicuro ho molto tempo per pensare, e come risaputo il pericolo è quello di scivolare nell’abisso di nuovo, ma i tempi di rivangare (e forse di inventare) il passato sono finiti.
Però, nelle vette più alte del mio “nonfareuncazzo” ho pensato cose strane, magari anche voi avete fatto i miei stessi pensieri. Ad esempio: la musica esiste quando non si sente? Trasformata in puntini e note tratteggiate su pentagrammi, mentre dorme fra i solchi di un vinile, oppure quando è immobile nei CD, nascosta nei bit incisi lungo un’unica traccia di 5 chilometri? Cioè quando noi non l’ascoltiamo, dove si trova la musica? E lo stesso vale per i pensieri espressi dalle parole, esistono davvero oppure sono fantasmi che tornano in vita solamente quando li leggiamo? Per riassumere, credo sia urgente che si ritorni al più presto alla normalità.
In ogni caso non c’è scelta, a breve si riparte, e già si guarda con gioia al futuro radioso che ci aspetta, e dunque ho anche pensato (di nuovo, non faccio un cazzo e penso) che una bella playlist per la rinascita non avrebbe fatto male. Ho scelto musica totalmente a caso, potrebbe pure essere la colonna sonora di un pomeriggio passato a sferruzzare, oppure impiegato ad attaccare mensole o semplicemente potrebbe essere la musica ideale per spendere quasi 90 minuti della vostra vita abbracciati al vostro congiunto (immaginarlo non vale, deve essere li, al vostro fianco).
Ovviamente si tratta di una Playlist del Poltronauta, non aspettatevi grandi slanci di energia, ma forse è meglio così, se si parte troppo forte si rischia di farsi male.
Mentre leggete il post potete ascoltare la playlist cliccando su uno di questi due link: Spotify o Music.
Buon Ascolto.
Back to Black – Ramin Djawadi
Al solito, inizio soft (e strumentale). Cover del gioiello di Amy Winehouse, sussurrata al piano da un compositore di colonne sonore tedesco di origini persiane (se scrivo iraniano la potente lobby “persiana” mi spezza le braccia). Si trova nella colonna sonora di “Westworld”, una serie TV di quelle che vanno viste per forza.
Can’t Let Go, Juno – Kishi Bashi
Brano scovato anche questo in una serie Tv, “Lovesick”, perfetta per i romanticoni come me, unico caso di serie che cambia titolo dalla prima alla seconda stagione (in origine il titolo era il poco elegante “Scrotal Recall”). Guardatela se vi capita, se non altro per vedere in azione l’attore che a breve sarà il protagonista del “biopic” su David Bowie. Non ho la minima idea di chi sia Kishi Bashi.
Education (Remastered) – Burning Spear
Ho visto pochissimi concerti nella mia vita, per pigrizia soprattutto. Uno di quelli che mi ha emozionato di più è stato quello di Burning Spear, una band storica di reggae della quale avevo quasi consumato i vinili a furia di ascoltarli. Per me erano (sono) il massimo, testi mai banali, impegnati politicamente e con un sound unico. Ma vederli suonare davanti a qualche centinaio di spettatori in un centro sociale mi riempì di tristezza. Pensai ai musicisti e al carismatico cantante, Wiston Rodney (di fatto i Burning Spear), ormai sessantenni, costretti a sbarcare il lunario suonando in situazioni del genere. Il concerto durò quasi tre ore, ad un certo punto, con il solo basso e le percussioni di sottofondo, il buon Wiston si piazzò spalle al pubblico, la faccia a 20 centimetri dal muro e ci rimase per un quarto d’ora, cantando strofe improvvisate.
The Rest of My Days – S+C+A+R+R
Se di Kishi Bashi non so nulla ma qualcosa on line si trova, di questo S+C+A+R+R ne so ancora meno. Pare sia francese, le sue due ultime hit (inclusa questa canzone) sono state prodotte da tale Dan Levy della band francese di indie rock parigina The Dø. Basta, però è una canzone che mette allegria, perfetta per la ripartenza. No?
Not – Big Thief
Giovane band da Brooklyn super prolifica che ha già pubblicato quattro dischi a partire dal 2016, senza contare altri 2 come solista della loro leader, Adrienne Lenker, giovane madre cresciuta in una setta di fanatici cristiani. Uno dei membri del gruppo è il suo ex marito, prova definitiva che la musica supera ogni ostacolo (più o meno). Di questo brano esiste una verisione live ancora più carica ma per adesso accontentatevi di questa.
Sisyphus – Andrew Bird
Andrew Bird è un polistrumentista americano che ha al suo attivo già 15 album, questo è un pezzo recente, del 2019. Non so a voi che effetto faccia, a me quel fischiettare all’inizio mette addosso un certo brio. Che poi parli di Sisifo (si, è quello condannato a spingere un masso verso la cima di un monte, per poi vederlo scendere a valle e rifare tutto da capo) è casuale, nessuna metafora per carità.
Waiting – Alice Boman
A 25 anni Alice Boman registra nella sua cameretta una serie di demo (che lei ribattezza Skisser , cioè “sketches” in Svedese) che poi manda ad un tecnico del suono per avere un’opinione sulla qualità del file, il tipo ne è così colpito che gira il tutto ad una casa discografica. Qualche mese dopo esce il suo primo EP, dove c’è “Waiting”, una vera e propria dichiarazione d’amore, vedete voi a chi dedicarla. Al primo spritz con bagigi che ci aspetta appena riapriranno i bar, al primo “sushi” divorato senza vergogna, al primo abbraccio ad un amico che non vedete da mesi. Oppure al solito vostro amore palindromo impossibile, che ormai non ne può più delle vostre dediche. I want you more than I need you – I need you so bad.
The Gypsy Faerie Queen – Marianne Faithfull
Ogni tanto qualche artista ultra settantenne muore, e per artista intendo musicista ma anche attore. Molto spesso si tratta di persone che non producono/recitano da anni, a quel punto partono i cosiddetti coccodrilli, i messaggi di cordoglio, che ricordano quanto grave sia questa perdita. Anche no, mi dispiace. Dal punto di vista umano passi pure la compassione, ma se l’ultimo disco l’ha registrato nel 1992, il fatto che lui/lei muoia dopo anni di silenzio non toglie niente al mondo artistico. Questo per dire che Marianne Faithfull a 72 anni è riuscita a realizzare un capolavoro come questa canzone (certo, con l’aiuto di Nick Cave), ispirata a “Sogno di una notte di mezza estate” di tale William Shakespeare. Non proprio una botta di energia, ma a volte la poesia basta e avanza per riempire il cuore.

Song to Bobby – Cat Power
Charlyn Marie “Chan” Marshall, pet tutti Cat Power è una donna meravigliosamente cool, magari non proprio stabile dal punto di vista fisico mentale, ma si sa, gli artisti sono fatti così. Con questa canzone assolutamente dylanesca (dylaniana?) Cat fa il suo omaggio al Bob Dylan, mettendo in musica l’amore per un artista che sicuramente ha influenzato lei e altri milioni di persone.
Fingerprints – I Am Kloot
Band di Manchester sciolta qualche anno orsono. Pare che il nome derivi da un gioco per carte per mancini descritto nel libro “Tre uomini in barca”, ma non ci giurerei. Tutto qui, niente aneddoti particolari da raccontare. Semplicemente mi sembrava un bel brano.

People Talking – Robert John Ardiff
Robert John Ardiff è un giovanotto irlandese baffuto e belloccio, le mie informazioni si fermano qui, a parte il fatto che il suo disco d’esordio è il classico EP registrato in cameretta nel 2016. Anche questo mi sembrava un bel brano da mettere a questo punto della playlist.
Cannes – Barbara Carlotti
Non so voi, ma la prima volta che ho ascoltato questa canzone mi è sembrato di vedere per davvero tutte quelle attrici intente a passeggiare in leggeri abiti estivi lungo la croisette. Il brano viene direttamente dal disco di esordio di questa cantante francese (e pure bionda) di chiare origini italiane. Un primo disco uscito quando lei aveva già 31 anni, ha poi avuto una carriera molto varia ma non molto prolifica.

It Ain’t Necessarily So – Bronski Beat
Ipnotizzato dal loro singolo d’esordio (Smalltown Boy) chiesi ad una vecchia zia di regalarmi il loro vinile “The age of consent” per un mio compleanno. Non so se avesse capito di che disco si trattasse, io di certo no. “The age of consent” dei Bronski Beat oltre ad essere un album bellissimo, è anche un manifesto per i diritti degli omosessuali, non a caso l’età nel titolo è quella minima affinché i rapporti omosessuali siano considerati legali. Nella copertina interna c’era la lista paese per paese, io lo capii molto dopo, ma a mia discolpa avevo solamente 15 anni. L’album (di fatto il primo e l’ultimo della band) ha dei pezzi magnifici, come questo, che è una cover di un vecchio standard jazz di Ira e George Gershwin. Ho cercato le versioni “originali”, ma anche quelle di grandissime voci restano inferiori a questa, ovviamente è una mia opinione, ma il post lo scrivo io, e questa non è una democrazia.
New World Coming – Nina Simone
Con un titolo del genere non poteva che finire in questa playlist, perché sembra davvero che un nuovo mondo sia in arrivo (non è vero, non cambierà nulla, ma è bello pensarlo) ma anche, se non soprattuto, perché Nina Simone dovrebbe essere patrimonio dell’Unesco, e si dovrebbe prendere al volo ogni possibilità di ascoltarla.
Oops!… I Did It Again (feat. Haley Reinhart) – Scott Bradlee’s Postmodern Jukebox
Cover del più grande successo di Britney Spear, quando vestita da Lolita diventò il sogno erotico di tutti gli over 30. Ovviamene alla sua preferisco questa versione vintage.
Banana (Frutto di moda) – Ghigo
C’è una battuta piuttosto semplice e gretta, ma che ogni volta che la sento mi strappa un sorriso. Un tizio molto effemminato entra da un fruttivendolo e gli chiede, con i suoi modi gay, una banana. Il fruttivendolo senza nemmeno togliersi la sigaretta di bocca prende un paio di banane, le mette in un sacchetto e dice al tipo. “Te ne do due, così almeno una te la mangi”. Pure in questo brano di Arrigo Riccardo Agosti, vero nome di Ghigo, la banana in questione si presta a facili doppi sensi. Cercando on line sue notizie, oltre a scoprire la sua folle vita d’artista, ho trovato un ritaglio di giornale del 1961 che riportava la notizia del suo arresto dopo essere stato colto in fragrante mentre molestava due bambine al cinema. L’articolo, oltre a dare le sue vere generalità, indicava anche l’allora suo indirizzo di casa, privacy policy bizzarra a quei tempi.
He Sabido Que Te Amaba – Javier Solís
Tra le varie cose strane che ho fatto in vita mia ci sono anche circa 3 mesi di lavoro in cucina di un ristorante italiano a Los Angeles. Troppo bianco per fare il lavapiatti, ero diventato “the fridge man”, ovvero la persona che doveva tirare fuori gli ingredienti dal frigorifero ogni volta che il cuoco messicano (all’epoca si chiamavano cuochi, non chef) me lo chiedeva. Nei lunghi pomeriggi passati a fraternizzare con i miei colleghi (tutti messicani) la musica era sempre in sottofondo. Javier Solis è l’unico degli artisti del quale mi ricordo il nome, Anche lui morto giovane, a circa 35 anni, era una vera e propria leggenda: attore, interprete di centinaia di canzoni di successo, amato da tutte le donne messicane. Questo brano è uno degli ultimi che ha inciso, è una cover di “Ho capito che ti amo” di Luigi Tenco, sarebbe bello scoprire come diavolo sia arrivata alle sue orecchie, ma non c’è tempo.
Something On Your Mind – Karen Dalton
Uno dei segreti meglio nascosti della musica folk americana, nata in Texas ma cresciuta fra l’Oklahoma e il Kansas, a soli 21 anni aveva già due divorzi alle spalle. Arriva nel Village di New York poco dopo, ad inizio anni ’60 con un paio di figli ed un banjo. Allergica al music business, suona raramente dal vivo e alla fine, a causa anche delle sue dipendenze dall’alcol e dell’eroina, registra due soli album, l’ultimo nel 1971. Poi di fatto sparisce, tra tentativi di rehab e alloggi provvisori. Per non farsi mancare nulla si becca l’AIDS e muore ad inizio anni ’90. Il classico eroe di questo blog. La canzone è bellissima.

Real Life – Joan As Police Woman
Un’altra artista donna. Polistrumentista molto conosciuta nei primi anni 2000 nel giro dei vari Devendra Barnhart, Antony and the Johnsons, Rufus Wainwright e Cocorosie (non avete idea di quello che sto scrivendo, vero?). Dopo aver acquistato il suo primo CD (che contiene questa canzone), ho scoperto che Joan Wasser (suo vero nome) era la fidanzata di Jeff Buckley quando lui morì annegato (e con questa ho rispettato anche la regola non scritta delle mie playlist, quella cioè di includere sempre il buon Jeff), e a quel punto non ho potuto che amarla. Che sia davvero la Real Life quella che ci aspetta a breve?
De Cara a la Pared – Lhasa de Sela
Canadese di origini messicane, con genitori abbastanza strambi, capaci di chiamarla come la capitale del Tibet, ho scoperto che è scomparsa piuttosto giovane qualche anno fa. Non ho la minima idea di cosa dica in questa canzone, ma mi piaceva e l’ho messa.
Love Will Tear Us Apart – José González
Svedese, figlio di rifugiati politici argentini (in effetti non credo che molti svedesi facciano Gonzalez di cognome) ha esordito nel 2003 a 25 anni con un bellissimo album, sorprendentemente originale. Poi però si è un po’ perso, oppure come direbbe un mio amico: “Ha rotto i coglioni”. Le sue cover restano piacevoli, come questa dei Joy Divison. Davvero l’amore ci farà a pezzi? (Scusate, questo è il post sbagliato).

Minor Swing – Django Reinhardt, Stéphane Grappelli
Da manuale si inizia e si finisce una playlist con un brano strumentale. Qui è il turno di due mostri sacri che per anni suonarono assieme cambiando il mondo del jazz. Praticamente coetanei, uno italo francese (Grappelli, nato a Parigi nel 1908 da un nobile italiano) l’altro di nazionalità mai chiarita, forse belga (era nato in Belgio nel 1910 da genitori Sinti con passaporto francese), o forse francese. Ad un certo punto Django Reinhardt si trovò nella Parigi occupata dai nazisti, lui zingaro e jazzista, due delle cose più odiate da Hitler e Goebbles, ma riuscì a sopravvivere, salvo morire pochi anni dopo la fine della guerra, a soli 43 anni per emorragia celebrare. Il suo modo di suonare ha creato nuovi riferimenti, insomma c’è il jazz prima e il jazz dopo Django Reinhardt. La cosa più incredibile è che il suo stile unico è nato da un incidente che quasi gli costò la vita. A 18 anni, già suonatore di banjo affermato, mentre si appresa a dormire nella roulotte con la giovane moglie fa cadere una candela accesa, il fuoco divampa in un attimo e la coppia si salva per miracolo. Django è quello messo peggio, passa 18 mesi in ospedale con i dottori che premono per amputargli il piede destro e la mano sinistra, gravemente feriti dall’incendio. Quando ne esce zoppica ma ha entrambi i piedi e ancora la mano sinistra, anche se il mignolo e l’anulare si sono saldati fra di loro. A quel punto passa dal banjo alla più leggera chitarra, reinventa il suo modo di suonare e diventa quel Django Reinhardt. Ecco, per dire che dalle disgrazie a volte può nascere qualcosa di unico e impensabile prima, magari capita anche questa volta con la fine del lockdown.
Bene, la playlist è finita. Tanto vi dovevo e tanto vi ho dato.
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