Jimmy Rabbitte: Elvis is not soul.
Jimmy Rabbitte, Sr.: [defensively] Elvis is God.
Jimmy Rabbitte: I never pictured God with a fat gut and corset singing “My Way” at Caesar’s Palace.
The Commitments. Alan Parker, 1991
Brani consigliati per la lettura:
Sweet thing, versione di Jeff Buckley. Once I was, una versione a caso di Tim Buckley.

Fine Estate 2013.
Dublino ci è scivolata via come una pioggia primaverile.
Una volta abituati alla bizzarria del tempo (grazie alla continua brezza marina la pioggia può alternarsi al sole quattro o cinque volte al giorno), apprezzi la vitalità delle sue strade piene di gente.
Forse non è la città migliore da visitare da solo con una figlia dodicenne, lo ammetto, però tutti quei cantanti che si esibiscono in ogni angolo della città, con violini, chitarre acustiche e quelle percussioni fatte con scatole di legno, valgono da soli il costo del biglietto.
Galway ci accoglie con un cielo grigio gonfio di pioggia, qui il sole sembra un’ipotesi lontana (il giorno dopo invece splenderà senza risparmiarsi), il viaggio in treno da Dublino, poco più di 2 ore, ci aveva offerto un panorama fatto di campagne verdi, mucche a pascolare, e ancora prati verdi. L’unica variante è stata la pioggia, che è passata da poca, a moltissima e infine a molta.
L’ostello è a pochi minuti dalla stazione. È il primo ostello per mia figlia, spero per lei sia il primo di una lunga lista. Lo staff ci accoglie con un sorriso, la sala comune è piena di ragazzini, il più vecchio avrà la metà dei miei anni, pazienza.
In una stanza più piccola ci sono un paio di divani di pelle, non proprio nuovi, alle pareti una splendida ed enorme stampa di una fotografia degli U2 (giovanissimi), scattata nei primi anni 80. Sulla parete di fronte c’è un altrettanto gigantesco ritratto di un tizio con la barba. Mia figlia mi chiede se la conosco, l’etichetta dice “Glen Hansard”, non so chi sia, questa volta Rickypedia si deve arrendere.
Ma visto che un giorno passato senza imparare qualcosa di nuovo è un giorno buttato via, approfitto dei PC a disposizione dei clienti dell’ostello per capire cosa abbia fatto quel tizio per competere con gli U2, almeno a livello di poster.

Glen Hansard è ovviamente irlandese, come mille altri ragazzi ha la passione per la musica, ma la sua lo porta a lasciare la scuola a 13 per diventare musicista di strada. Non solo, la strada ad un certo punto diventa anche la sua casa.
Nonostante la giovane età Glen è bravo, canta e suona la chitarra qualsiasi cosa, anche pezzi suoi. A 20 anni forma la sua prima band, “The Frame”, ma per le strade di Dublino è già una leggenda, così quando Alan Parker decide di girare un film su di un’immaginaria e strampalata band soul della periferia di Dublino, “The Commitments”, (che sarà anche il titolo del film), viene scelto per interpretarne il chitarrista.
Per promuovere il film prima dell’uscita nelle sale americane, la finta banda fa una specie di tour vero negli USA. Ed è proprio durante questo tour che Glen farà un incontro che cambierà la storia della musica, uno dei segreti meglio conservati degli anni ’90 che lo stesso Glen confiderà in una intervista che si può ascoltare su YouTube (potete ascoltarla qui se volete) , e se anche tutto quello che racconta fosse una bugia, è una di quelle storie che il Poltronauta non poteva lasciarsi sfuggire.
Per la tournée negli States, il management della band/film assume vari roadies, cioè quelle persone che durante il tour si occupano di caricare e scaricare le casse, montare il palco, etc. Tra questi c’è un ragazzo californiano di circa 25 anni, tale Jeffrie, per tutti Jeff. Il tipo ha una cultura enciclopedica sulle chitarre e da lì a poco gli viene assegnato il compito di prendersi cura di tutte le chitarre della band, inclusa quella di Glen.
I due si prendono subito in simpatia, sono fra i più giovani di quella specie di circo itinerante, tutt’e due appassionati di musica rock, ad ogni città nella quale si fermano setacciano i negozi di dischi della zona, tutt’e due hanno fame di vita, di musica, di conoscere. Una fame che a vent’anni sarebbe un delitto non avere.
Una sera sono in camera d’albergo a Chicago, improvvisano a turno brani del passato. Quando tocca a Glen, parte con una versione quasi perfetta di “Once I Was” di tale Tim Buckley, un cantautore californiano di origini irlandesi morto giovanissimo a metà anni settanta. Jeff sorride, gli dice che la conosce quella canzone, perché l’ha scritta suo padre. Glen si ferma, quasi non ci crede, quel ragazzo bello come un Dio greco è il figlio di Tim Buckley, e ora che lo guarda meglio inizia a vederne le somiglianze.

La tournée arriva a New York, l’albergo si trova nella 58esima strada, appena lasciate le valige i due chiamano un taxi e si fanno portare al Village, l’unico zona di New York che conta per loro, e anche qui cercano negozi di dischi, mentre respirano l’aria di quei luoghi ricchi di musica e di arte.
Quando tornano in albergo Glen riceve una telefonata, è un suo amico irlandese che da qualche anno gestisce un locale, con un piccolo palco, nell’east Village (precisamente al numero 122 di St. Mark Place): The Sin-é (parola gaelica che si pronuncia all’incirca “scianì”) Café, il tipo gli chiede se può portare la crew dei Commitments per fare una piccola esibizione, sarebbe una pubblicità enorme per il locale. Ma per quanto Glen sia una figura importante, i Commitments hanno il tour blindato e soprattutto si esibiscono in situazioni di ben altro livello, tipo il David Letterman show, perciò dice all’amico che non se ne fa niente, però, per non deluderlo del tutto, si offre per un concerto improvvisato la sera stessa. Chiama il taxi e ovviamente si porta anche Jeff.

Glen sale sul palco alle 23.30, suonate 3 canzoni vede Jeff che freme, così mentre inizia “Sweet thing”, brano di un’altra leggenda della musica irlandese, Van Morrison, lo invita a salire. Jeff abbraccia una chitarra e si impossessa del microfono per cantare la seconda strofa. Glen non aveva mai sentito Jeff cantare in quel modo, anzi forse non aveva mai sentito nessuno con quella voce. Quella versione del brano dura 20 minuti, 20 minuti che cambieranno la storia della musica, e la vita di molte persone.
Lo scarso pubblico, che alla fine del brano rimane senza parole, ha assistito alla nascita di un mito e tutti i presenti si innamorano perdutamente di Jeff Buckley.
Quella sera Jeff comunicherà a Glen che la sua tournée finisce lì, a New York, accetta il lavoro come lavapiatti al Sin-é Cafè, con il benefit di potersi esibire ogni sera.
Sempre quella sera, i due incontreranno tale Hal Willner, boss della Warner, e mentre a notte fonda ascoltano dischi di Tom Waits nel suo appartamento del Village, il tipo, gran estimatore di Tim Buckley, decide di organizzare un concerto tributo per lo sfortunato cantautore, con il figlio Jeff ospite speciale.
Il concerto in effetti si terrà da lì a poco, presso la chiesa sconsacrata di St. Ann, Jeff Buckley apparirà al piccolo gruppo di appassionati accorsi al concerto come una specie di angelo.
Da quel concerto, e grazie anche alle continue esibizioni allo Sin-é Café, Jeff Buckley entrerà nella storia della musica come una delle più incredibili voci della sua generazione, un’apparizione troppo bella per essere vera.

Una settimana prima del 29 maggio 1997, il giorno nel quale sparirà nelle acque di un affluente del Mississippi, Jeff Buckley chiama Glen Hansard, ma non lo trova, gli lascia un messaggio in segreteria, dicendogli che è da molto che non lo sente, che ora sta registrando il nuovo disco, e che sta andando tutto bene.
Dopo la morte di Jeff, molti dei suoi amici dissero di aver ricevuto sue chiamate in quei giorni, in molti casi dopo mesi di silenzio. Jeff li aveva cercati semplicemente per salutarli, come se sapesse che se ne stava andando.
Il Sin-è Cafè aveva già chiuso i battenti l’anno prima. Uno dei proprietari, Doyle, cocciuta irlandese proverà a più riprese a riaprirlo in posti diversi ma alla fine, nel 2007, i costi mostruosi della “gerentrification” posero la parola fine a questo miracolo.
Al resto del mondo, a più di venticinque anni dal suo esordio, rimangono le straordinarie canzoni di Jeff, e un rimpianto lungo come tutto il Mississippi.
Muore giovane chi è caro agli dei. Non si dice così?