That until there no longer
First class and second class citizens of any nation
Until the color of a man’s skin
Is of no more significance than the color of his eyes
Me say war
War – Bob Marley
Lo scorso Natale ho deciso di regalare a mia figlia un test del DNA, non uno di quelli che svelano il vero padre, ma uno di quelli che ti spiegano, in base alle sequenze, quali siano le tue principali origini etniche, da quale parte del mondo cioè arrivino i tuoi antenati. A mio avviso un test così dovrebbe essere obbligatorio, così da capire che la purezza della razza è una balla vera e propria.
Visto che il giorno prima di Natale è anche il suo compleanno, avrei voluto regalarle qualcosa di diverso, che so, un miracolo per la madre, due genitori sposati, ma pare che Amazon regali del genere li avessero finiti.
Il kit per l’esame de DNA è arrivato quasi un mese dopo, notevole il packaging, semplici le istruzioni. Comunque alla fine, tra una cosa e l’altra i risultati ci sono stati comunicati via email a fine Aprile, e a parte alcune ovvie conferme (60.6% italiano) certe provenienze sono state sorprendenti, come si può vedere dalla mappa qui sotto.

L’incrocio fra i vari DNA sarà col tempo sempre più frequente. No, non è un complotto di Soros e dei suoi amici plutogiudaici (ndr io scherzo, ma c’è gente che lo pensa sul serio), semplicemente è il destino dell’umanità.
Mio padre sosteneva che gli Stati Uniti (USA) fossero così avanti perchè i suoi abitanti avevano spesso radici disomogenee, incroci improbabili in altri posti del mondo ma facili se non comuni da quelle parti, perchè, diceva, “i cani bastardi sono più intelligenti di quelli di razza” (lo so, non molto political correct, ma parliamo di un comunista degli anni ’70 che aveva fatto il partigiano).
Così come dagli incroci di “etnie” improbabili, sono affascinato anche dagli estremi opposti, cioè da quelle bolle etniche che, nate per qualche anomalia storica, continuano a resistere dopo secoli, come le comunità croate che si trovano in Molise, discendenti di quegli “schiavoni” che qui trovarono rifugio dopo essere scappati dai turchi nel XIV (quattordicesimo, per i più asini, ndr) secolo, e il cui dialetto (ormai parlato da pochi) è studiato dai puristi della lingua croata, perché cristallizzato a 6 secoli orsono.
Di anomalie del genere ce ne sono molte, non solamente in Italia. C’è un libro scritto quasi vent’anni fa da un giornalista italiano, Riccardo Orizio, che raccoglie i casi più affascinanti, non a caso si intitola “Tribù bianche perdute: viaggio fra i dimenticati” (edito Laterza, cercatelo, vale qualsiasi prezzo lo paghiate) e per darvi un’idea dello spessore del libro basta pensare che a scriverne l’introduzione è stato sua maestà Ryszard Kapuściński (non Roberto Giacobbo).
Il libro è un viaggio alla scoperta di sei “tribù” sconosciute e dimenticate nel terzo mondo, con un punto in comune, cioè essere tutti discendenti di bianchi europei, arrivati in quei posti più o meno tutti per gli stessi motivi, la fame e la ricerca di un mondo migliore. Ma questi bianchi perduti non sono diventate divinità (come accadeva al personaggio principale del romanzo di Kipling “L’uomo che volle farsi re”), anzi molto spesso sono rimasti ai margini della società, evitando di mischiarsi con i locali o comunque senza mai imporsi.
Un mondo alla rovescia, quello descritto da Orizio, dove il bianco è spesso il povero, dove il colonizzatore sta peggio del colonizzato. Il tutto ovviamente partendo da micro-storie che il giornalista raccoglie dal vivo, con una capacità straordinaria di mettere in risalto aspetti gli più incredibili di questa umanità dimenticata.

C’è la storia dei Dutch Burgher in Sri Lanka, discendenti di quegli olandesi che a partire dal 1600 e per due secoli fecero di Cylon una seconda patria, incrociando i loro destini (e il loro DNA) con Portoghesi, Boeri del Sudafrica, e persino con un capitano livornese di nome Sansoni (da leggere la storia nella storia dei suoi discendenti dagli occhi blu). Un gruppo etnico di cui fa parte anche Michael Ondaatje, l’autore de “Il paziente inglese“. Ma che anche qui , con la fine delle potenze coloniali, i gruppi differenti dalle etnie vincenti hanno pagato anche per colpe non proprie, e infatti la comunità dei Dutch Burgher è in forte declino, chiusa su se stessa, illusa quasi di essere ancora nell’800.

Poi è il turno dei tedeschi Giamaicani di Seaford Town, discendenti da gruppi di tedeschi che arrivarono nell’isola caraibica attorno all’800, e furono subito fatti schiavi da potenti dell’epoca. Dopo circa due secoli ce ne sono ancora centinaia di completamente bianchi ma, come racconta la storia di un intervistato, si sentono giamaicani al 100%, pur consci del fatto che il colore della loro pelle (in una nazione fra le più multietniche del mondo, ma che ha 17 parole per distinguere la tonalità della pelle) li rende speciali da tutti gli altri abitanti, pur sempre contadini ma speciali.
Anche in questo caso Orizio parte dalla storia di Tony, probabilmente l’unico vero rasta bianco del mondo, con un passato da parlamentare giamaicano.

Parlando di Americhe, ci sono anche i Sudisti americani del Brasile, discendenti dei soldati dell’esercito dei Confederati che, una volta sconfitti nella guerra di Secessione (1865, per darvi un’idea di quanto anni sono passati), cercarono in una remota regione brasiliana la loro terra promessa. E ancora oggi si sentono americani in esilio più che brasiliani.

Parlando di bianchi dimenticati, c’è un’altra storia incredibile, quella dei Polacchi che, integrati nell’esercito di Napoleone, furono mandati da quest’ultimo ad Haiti per sedare la rivolta capeggiata da Dessalines agli inizi dell’800. Pare che al loro arrivo disertarono l’esercito per andare a combattere tra le fila dei ribelli, di certo sfuggirono al massacro di tutti i bianchi presenti nell’isola, una volta che gli insorti conquistarono il potere, sicuramente per il contributo dato da loro alla causa. A tutt’oggi sono il gruppo etnico più bianco rimasto nell’isola più africana dei Caraibi (on line si trovano un paio di documentari). Quando Woytila, il papa polacco, andò in visita ad Haiti nei primi anni ’80 tra la folla in delirio vide anche un mucchietto di quasi bianchi, uguali agli altri nella miseria ma dal colore diverso.

Fra le tribù che Orizio incontra, probabilmente la più particolare è quella dei Baster di Rehoboth, allevatori calvinisti della Namibia, una vera e propria etnia “artificiale”, se si può definire così. Gli attuali abitanti di quella piccola zona (ma ce ne sono altri sparsi in Angola e in Sudafrica, frutto di vari esodi della loro storia) sono i discendenti dei contadini nomadi boeri (trekboer) che a metà ottocento lasciarono il Sud Africa, sai per scappare dagli inglesi che per cercare nuovi terreni, qui il loro pellegrinaggio li portò ad incontrare tribù locali di boscimani e ottentotti, e soprattutto con le loro donne. Da questo incrocio sono nati i Baster, ancora oggi orgogliosamente diversi da tutti gli altri abitanti della Namibia, esperti allevatori ma anche manovali richiesto in tutto il paese.

L’ultima parte del libro Riccardo Orizio la dedica a quella che sicuramente è la più affascinante, misteriosa tribù bianca da lui visitate, i Blanc Matignon, discendenti dei coloni normanni e bretoni che 3 secoli orsono attivarono nell’isola della Guadalupa, nelle Antille francesi (da non confondersi con l’isola di Guadalupe, posta difronte alla Baja California in Messico, abitata da 28 persone). Ad un certo punt, senza alcuna ragione apparente, i Blanc Matignon (Blanc da bianco e Matignon dal cognome che accomunava praticamente tutti i coloni) presero armi e bagagli (e schiavi) e si ritirano all’interno dell’isola, nella zona chiamata Grands-Fonds. Ed è qui che quel pazzo di Orizio va a trovarli, circa 400 superstiti, tutti bianchi come fossero sbarcati dalla Normandia una settimana prima. Impossibile da fotografare, questa piccola bolla bianca all’interno di un isola per la stragrande maggioranza nera (o per lo meno non bianca) porta però le conseguenze di secoli di endogamia, con un numero eccezionale di persone nate con malformazioni e malattie genetiche.
Anche in questo caso lo scrittore riesce a catturarne lo spirito attraverso le storie delle persone che incontra.
Nota a margine, la signorina che vedete in alto si chiama Johanne Matignon, è stata miss Guadeloupe nel 2017, come si intuisce dal cognome deriva da quei coloni normanni e bretoni ma a differenza dei 400 scappati all’interno dell’isola, nei secoli il loro DNA si è incrociato con quello degli schiavi africani (e chissà con quale altro). Non so voi, ma il risultato non mi dispiace.

Riccardo Orizio era un giornalista curioso, giramondo, il suo secondo libro è stato “Parola del diavolo. Sulle tracce degli ex dittatori“, dove racconta le parabole discendenti dei più sanguinari dittatori del terzo mondo. Dopo questo secodo meraviglioso libro, il giornalista italiano sparì e passò a miglior vita.
Non fraintendetemi però, il buon Riccardo è ancora fra noi (credo legga ogni tanto anche il Poltronauta, e probabilmente in questo momento sta facendo gli scongiuri), ho pure avuto una breve corrispondenza mesi fa, ma adesso non fa più il giornalista, si trova in Kenya, dove a trovato il suo “buen ritiro” in una specie di angolo di paradiso trasformato in un residence ultra eco friendly, il “Saruni” (per i più curiosi: http://www.saruni.com, guardate il posto e ditemi che non è “migliore vita” quella). Non so quanto gli manchi il suo lavoro di giornalista, a me mancano suoi nuovi libri, ma di certo ha le giornate piene. Penso però gli sarebbe piaciuto incontrare quel dentista portoghese che incrociai anni fa, esattamente nell’Estate del 1996.
Ricordo benissimo quell’incontro, anche se non il suo nome, ma parliamo di oltre 20 anni fa, e sappiamo che la memoria del Poltronauta a volte ha dei buchi. Lavoravo alla stazione dove dirigevo (a modo mio) uno stand per informazioni turistiche, pensato per turisti under 30, anche se ovviamente eravamo diventati il punto di riferimento per chiunque. Vista la posizione (Stazione di Venezia) e la tipologia dei clienti ci sarebbero decine di episodi “alla Poltronauta” da raccontare, magari la prossima volta, per adesso fatevi bastare quella del dentista portoghese.
Ora, già definirlo “dentista portoghese” è più che riduttivo, ma procediamo per ordine.
Caldo pomeriggio di fine Estate, dopo aver pazientemente aspettato in coda con la sua ragazza, il tipo è difronte a me, indossa la giacca della tuta del Milan, è già questo non va a suo favore. Non supera il metro e settanta, in testa ha degli invidiabili capelli lunghi e neri, che hanno quasi un riflesso blu. I colori del viso sono quelli del mediteraneo, non c’è dubbio, gli chiedo (in inglese) quanti anni ha e sorprendentemente mi risponde in un italiano quasi perfetto.
Mi dice che ne ha appena compiuto 30 anni e che viene dal Portogallo, la sua ragazza, anche lei portoghese, invece è un po’ più giovane. Siccome la carta che vendiamo (Rolling Venice) garantisce un sacco di sconti, ma è solamente per chi non ha compiuto 30 anni, lo informo che è nato il 16 dicembre del 1966, così posso fare la carta ad entrambe.
Mentre inizio ad inserire i dati gli chiedo, giusto per curiosità, perchè parla italiano e cosa ci fa in Portogallo. Il ragazzo mi fa un sorriso a 36 denti, sembra aspettasse questa domanda e mi racconta la sua storia, una delle più bizzarre che abbia mai sentito.
La madre viene da un paesino vicino ad Alghero, mi dice che è discendente da una famiglia di origini ebraiche che dalla Catalogna scappò in Sardegna durante la Santa Inquisizione, per questo parla l’italiano. Gli chiedo un documento pro forma, giusto per copiare il nome, e allora dalla borsa tira fuori una carta d’identità portoghese ed un passaporto USA, alla mio sguardo interrogativo mi spiega che la madre si era trasferita per motivi di studio attorno ai suoi vent’anni negli USA, ovviamente non in una città famosa, ma in un posto dimenticato tra l’Arizona e il New Mexico, dove aveva incontrato il padre, professionista dei rodeo di origini Navajo (ecco da dove ha preso quei capelli). Per questo aveva il passaporto americano.
So già che me ne pentirò, ma sono troppo curioso a questo punto, e gli chiedo cosa fa in Portogallo. Altro sorriso, e mi dice che gioca come centrocampista in una squadra di serie B (mi dice pure il nome, ma non lo memorizzo), gli sarebbe piaciuto giocare in Italia ed è un grande tifoso del Milan, ma oramai è vecchio, e si deve accontentare di una squadra minore di uno dei più poveri tornei europei, e infatti, aggiunge, non riesce a viverci con pallone, per questo fa il dentista. Aggiunge però che gli sarebbe anche piaciuto fare il pittore, che ha un ottima mano, e per confermarmi la bontà delle sue parole mi chiede un foglio di carta e in un paio di minuti mi fa una mia caricatura, che ancora dovrei avere da qualche parte.
Sorriso, stretta di mano e scompare, con la sua storia incredibile.
Non so quanto fosse cazzaro quel tipo, magari si era inventato quella storia in quel momento, un po’ alla Keiser Soze, raccontata per prendermi in giro, o semplicemente per il gusto di farlo, ma per me resta troppo meravigliosa per non poterla credere vera.
Chissà cosa ci avrebbe ricavato Riccardo Orizio.
sono stato a Marzo in Sri Lanka e ho avuto contezza di una grande complessità etnica (cingalesi, arabi, tamil, discendenti dei colonizzatori europei) e religiosa (buddisti, musulmani, induisti, cristiani), senza sapere in particolare di questa minoranza dei Dutch Burger, che tuttavia penso rientri nella quarta categoria dei due elenchi da me fatti…
grande pezzo, as usual!
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Grazie! E un po’ d’invidia per il tuo viaggio. Ho un dirimpettaio dello Sri Lanka (meglio che niente 😊) chiederò lumi a lui.
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Grazie caro omonimo per la precisazione sul passaggio a miglior vita, ti confermo che sono vivo e vegeto nella savana del Kenya (o spesso più’ modestamente nel mio giardino di Nairobi, ma giardino con le scimmiesche saltano di albero in albero). Le tue osservazioni sono sempre interessanti e stimolanti. La storia del dentista portoghese splendida. Viene voglia di sapere “cosa e’ successo dopo”… Il “gioco” del DNA e’ affascinante e pericoloso: quando lo fecero i sudafricani bianchi dell’epoca dell’apartheid scoprirono che nelle vene di quei marcantoni biondi e giocatori di rugby c’era quasi sempre sangue africano. Ottima scelta di fotografie! Parlano da sole. Un caro saluto a tutti e continua a lavorare a questo blog: in un mondo impazzito ma serioso e noioso, la tua arguta intelligenza e’ una consolazione
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Caro omonimo amico, grazie a te per le belle parole. Avessi ancora la mia cameretta non esiterei a stampare il tuo commento ed appenderlo vicino al poster di Bob Marley. Quel tipo portoghese è un “fantasma” che mi perseguita da vent’anni, chissà davvero in che parte del globo si trova adesso. Grazie ancora, a bientôt (e scaricati il mio finto eBook con tutte le storie 😊)
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P.s. Un po’ di sana invidia per il giardino mi è consentita?
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Dimenticavo: oggi un amico mi ha citato George Santayana, che non conoscevo: “I have gathered together a posy of other men’s flowers. The only thing that is mine is the tie that binds them”. Fantastico
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Magnifica davvero!
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