«Per organizzare un lavoro congiunto di tipo scientifico e geografico, datemi Scott; per un viaggio d’inverno, Wilson; per una capatina al Polo e nient’altro, Amundsen; ma se mi trovo in un dannato buco e voglio uscirne, datemi Shackleton tutte le volte.»
Apsley Cherry-Garrard, Il peggior viaggio del mondo
(Brano consigliato per la lettura “Time” di Hans Zimmer, dalla colonna sonora di “Inception”)

Nonostante abitasse a Venezia da oltre vent’anni, la madre di mia figlia si ostinava a tenere in borsa una mappa cartacea della città e non come talismano. Quella mappa la consultava per davvero, perché continuava a perdersi, ovunque.
Ogni tanto, quando il panico saliva, si fermava ad una cabina telefonica pubblica (oppure, con l’avvento del cellulare, semplicemente telefonava) per chiedermi come districarsi in quel labirinto dove si era cacciata. io con calma le spiegavo la calle da prendere, dove girare, in che direzione andare. Non so se negli ultimi anni avesse finalmente imparato come muoversi, prima di lasciarci per sempre non era certamente il mio il numero di telefono che chiamava in caso di bisogno.
E voi, vi siete mai persi? E non intendo metaforicamente (oppure in città più o meno labirintiche come Venezia) ma persi per davvero, in quel modo così definitivo che la gola vi si secca, che realmente non sapete dove diavolo vi trovate. Il cuore batte forte e dovete prendere profondi respiri per cercare di calmarvi, per cercare di restare concentrati mentre il mondo sembra crollarvi addosso.
Ovviamente non ho la minima idea di cosa si provi in quelle situazioni, sto scrivendo nella classica modalità “Salgari” nella quale entro ogni tanto. Ma se l’autore di Sandokan in questa modo aveva realizzato delle storie di eroi nei posti più lontani che aveva “visto” solamente nei libri delle biblioteche frequentate (soprattutto a Torino), io mi limito a qualche breve post.
A dire il vero non ho mai affrontato viaggi avventurosi. Nemmeno quando girai il Nord America a 18 anni in solitaria non mi allontanai mai troppo dalla civiltà. In questi ultimi anni per perdersi ci vuole un certo impegno, oppure una discreta sfortuna mista sbadataggine, siamo così iperconnessi che trovarsi “soli” su questo pianeta non è più così facile.
La storia umana è lastricata di grandi viaggiatori, di uomini straordinari che per vari motivi (non solo economici) osarono superare le loro colonne d’Ercole. Inutile fare una lista, se state leggendo questo post vuol dire che avete accesso ad internet, cercatela su google.
L’ex impero britannico deve molto a questi avventurieri, soprattutto a partire dal ‘700, quando l’audacia di alcuni suoi sudditi regalò alla corona inglese mezzo mondo. Spesso erano viaggi di sola andata, oppure così lunghi da riempire da soli gran parte della loro vita. Tutti conoscono la storia del dott. Livingstone che fece perdere le sue tracce nel cuore dell’Africa nera nel 1866. La fama leggendaria di Livingstone spinse James Gordon Bennett Jr., il proprietario del “New York Herald”, a finanziare la missione di salvataggio del 1869 capitanata da Henry Morton Stanley con una cifra enorme (quando Stanley chiese il budget a disposizione l’editore disse. “Prendete 1000 sterline, quando saranno finite, prendetene ancora 1000, e quando le avete spese, chiedetene altre 1000, e quando le esaurirete ce ne saranno altre 1000 e così via. Ma trovate Livingstone!“).
In effetti dopo quasi 2 anni, con un dispendio straordinario di uomini (e di soldi), Stanley riuscì ad incontrare il dott. Livingstone.
Giusto per capire quanto fossero british, al posto di dire qualcosa tipo “Bea vecio, come ti sta?” oppure “Miiiinchia! Non ci posso credere, il dott Livingstone!?” quando Stanley si trovò davanti il vecchio dottore, oltre a lui unico uomo bianco nel raggio di centinaia di chilometri, lo salutò con la leggendaria frase “Dr. Livingstone, I presume.”
Stanley però non riuscì a riportarlo in Europa, rimase con lui ancora un anno per aiutarlo nella ricerca delle sorgenti del Nilo (che era poi la missione fin dall’inizio di David Livingstone) e poi si arrese, mentre il dottore scozzese continuò con la sua ricerca senza raggiungere il risultato fino a quando, poco dopo, morì a causa della malaria.
Quello che rimane il fallimento di maggior successo della storia dell’umanità (a parte l’Inter allenata da Orrico, un’utopia degna del Fitzcarraldo di Herzog) è la cosiddetta “Spedizione Endurance” (“Perseveranza” in italiano), che aveva lo scopo di attraversare il Polo Sud.
L’Antartide era la vera e propria ossessione del carismatico capitano di questa missione, Sir Ernest Henry Shackleton, già reduce da due spedizioni in quella parte di mondo, entrambe più o meno fallimentari.

La prima volta, sotto il comando di Robert Falcon Scott, tra il 1901 e il 1903, aveva tentato di raggiungere il Polo Sud con delle slitte tirate da cani. Tutti i membri della spedizione, lui incluso, erano totalmente inesperti, nessuno aveva mai guidato un cane da slitta (Shackleton non aveva nemmeno montato una tenda prima di allora), vestiti praticamente con infradito e pantaloni di lino, riuscirono a salvarsi per il rotto della cuffia, mancando ovviamente l’obiettivo.
Tra il 1907 e il 1909 Shackleton ci riprovò con una spedizione tutta sua, ma anche questa volta la preparazione non fu perfetta. Furono scelti dei pony della Manciuria al posto dei cani da slitta. ciò nonostante arrivarono a “soli” 180 km dal Polo Sud quando però il capitano decise di non rischiare oltre e di tornare indietro. Al solito prese la sconfitta con un certo fair play, affermando: “Better a live donkey than a dead lion (Meglio un asino vivo che un leone morto)”.
Ma eccoci alla spedizione “Endurance” (dal nome della nave) alla quale Schackleton lavorò alacremente per anni, cercando fondi e curando ogni minimo particolare. L’obiettivo questa volta non era più quello di raggiungere il centro del Polo Sud, già calpestato dal norvegese Roald Amundsen nel 1911, bensì di attraversare l’Antartide da nord a sud e di nuovo a nord (ovvio, una volta raggiunto il sud non si può che andare a nord, ndr).
Il piano prevedeva di partire dalla costa del mare di Waddell (lato Atlantico per capirsi), dirigersi con delle slitte e una selezione di uomini verso il mare di Ross (lato Pacifico), dove avrebbero trovato una seconda nave di supporto, l’Aurora, che li avrebbe portati in Nuova Zelanda. Non solo, l’equipaggio dell’Aurora avrebbe dovuto preparare dei rifugi, dei depositi di cibo e carburante lungo l’itinerario per permettere a Shackleton & C. di completare i 2.900 km che separavano i due mari.
L’Endurance, con a bordo Shackleton e altri 27 uomini, lascia Londra il 1º agosto 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiari guerra alla Germania. Dopo una sosta a Grytvyken (Georgia del Sud), il 10 gennaio 1915, Shackleton & Friends entrano nel mare di Weddell, ma dopo una settimana circa iniziano i guai.
La nave rimane incastrata nel pack antartico ed inizia ad andare alla deriva, allontanandosi sempre di più dal previsto punto di sbarco. Dopo 10 mesi circa la nave dà segni di cedimento (affonderà da lì a poco) e tutto l’equipaggio si trasferisce a “terra”, portando con sé provviste e le tre scialuppe di salvataggio.
Shackleton non molla di un millimetro, obbliga tutti i suoi uomini a scrivere un diario, un modo per tenere vivo lo spirito, crea delle routine quotidiane per tenerli occupati e chiede al fotografo della missione, l’allora trentenne Frank Hurley, di fotografare il più possibile. Tutte le foto che trovate in questo post sono sua opera (diciamo quelle a tema Polo Sud).

Gli uomini della spedizione resistono stoicamente, ad un certo punto per sopravvivere sono sono costretti a mangiare anche i cani da slitta, ma non perdono mai la speranza, passano di banchisa in banchisa fino all’8 aprile 1916, quando il ghiaccio dove si trovano inizia a sciogliersi. Shackleton decide di giocare il tutto per tutto, sente la responsabilità di aver imbarcato in quell’impresa folle 27 persone (ancora tutte miracolosamente vive). Fa mettere le scialuppe in mare e le dirige verso Elephant Island, un pezzo di terra a sud della Patagonia, conosciuto per il clima inospitale (tipo vento fino a 300 km all’ora), ma almeno non fatto di solo ghiaccio.
Dopo 498 giorni dalla partenza da Londra, l’equipaggio della defunta “Endurance” tocca terra, il 15 Aprile 1916, l’isola è esattamente come se l’aspettavano, una merda insomma, ma almeno offre una specie di rifugio e cibo in abbondanza (pinguini e alghe, niente avocado). Shackleton capisce però che le possibilità che qualche nave passi da quelle parti sono pari allo zero, decide perciò di cercare di raggiungere la Georgia del Sud, distande circa 1600 km, per poi tornare con i soccorsi. Fa rinforzare una delle scialuppe (quella chiamata “Caird”, ndr), imbarca scorte minime di acqua e cibo per circa 15 giorni (dicendo che se entro quei giorni non avessero raggiunto la Georgia del Sud voleva dire che si erano persi definitivamente) e con 5 uomini parte, affidandosi ad una vecchia mappa navale ed ad un sestante. Sbagliare di un solo grado (a nord a o a sud) vorrebbe dire mancare l’isola e perdersi per sempre, praticamente è come fare canestro da un paio di chilometri di distanza.

Giusto per alzare l’asticella, quel pezzo di oceano è attraversato dai “furious fifties” (in italiano conosciuti come “Cinquanta Urlanti”, ottimo nome per una band metal composta da gente di mezza età, se lo chiedete a me), cioè dei venti che soffiano a 200 km all’ora tra il 50º e il 60º parallelo dell’emisfero meridionale, creando onde alte come palazzi. Non si tratta esattamente della laguna di Grado, per capirsi.
Incredibilmente, dopo 15 giorni, ormai senza acqua e viveri raggiungono l’isola della Georgia del Sud, Shackleton è sicuramente un uomo tenace, ma non proprio fortunato. Infatti la scialuppa arriva nella parte nord occidentale dell’isola (nella baia di Re Haakon), ovviamente dalla parte opposta della costa abitata, dove si trova anche la stazione baleniera di Stromness, il porto più vicino.
Il mare non permette la circumnavigazione, l’unico modo per raggiungere quel porto è quello di superare la catena Allardyce, con montagne superiori ai 2.000 metri. Chiaramente nella scialuppa non c’era attrezzatura da alpinismo, ma non ci sono problemi, hanno un piccone, una corda di 30 metri, si chiodano gli scarponi e via, si parte. Shackleton con altri due compagni (tali Crean e Worsley) impiega 36 ore ad attraversare 48 chilometri di creste e ghiacciai, mai esplorati fino a quel momento.
Il 20 maggio i tre arrivano a Stromness, la stazione baleniera più vicina, sono in condizioni spaventose: barba e capelli lunghi, indossano gli stessi vestiti fatti con pelle di foca da mesi, sembrano degli zombie. Quando Shackleton si presenta con il suo nome al comandante della stazione, il tipo quasi sviene, tutti sapevano della scomparsa dell’Endurance e trovarsi faccia a faccia con quel capitano leggendario gli fa tremare le vene dei polsi. Praticamente è come imbattersi in Elvis Presley alla Nave de Vero (centro commerciale a Marghera, ndr) che ti chiede indicazioni per il bancomat più vicino.
Una volta lavati e sistemati Shackleton recupera i suoi tre compagni fermi nella baia di Re Haakon, ed inizia ad organizzare il soccorso degli uomini rimasti sull’isola di Elephant che riesce a raggiungere e a salvare solamente al quarto tentativo: il 30 agosto del 1916, con l’aiuto del rimorchiatore cileno Yelcho.

Ora, se vi ricordate, la spedizione di Shackleton prevedeva l’appoggio di un’altra nave, l’Aurora, che avrebbe dovuto aspettare il capitano dall’altra parte dell’Antartide. Ecco, il 7 maggio 1915, mentre il comandante della nave Mackintosh e altre nove persone dell’equipaggio è a terra per preparare i rifugi per Shackleton, un’improvvisa tempesta distrugge gli alberi delle vele dell’Aurora e spezza gli ormeggi, portando i 18 uomini a bordo alla deriva per quasi un anno e lasciando al loro destino i dieci uomini già scesi, con poche scorte di viveri e nessun vestito otre a quelli indossati.
Per 20 mesi restano da soli, fino a quando il 10 gennaio 1917 Shackleton (se non lui chi poteva farlo?), che aveva saputo poche settimane prima dell’equipaggio perduto, li raggiunge portando in salvo i sette sopravvissuti, poiché purtroppo tre uomini, fra i quali il comandante della spedizione Mackintosh, non avevano superato l’inverno antartico.
Poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, alla quale Shackleton aveva preso parte anche se ai margini, la febbre da viaggio, la “wanderlust”, lo colpisce nuovamente. Questa volta vuole provare con la conquista del Polo Nord, cercando di fregare “l’odiato” norvegese Amundsen che aveva espresso la volontà di replicare il suo successo dell’Antartide. Nel marzo del 1920 riceve il semaforo verde da parte della “Royal Geographical Society” e il supporto del governo Canadese. Ad inizio del 1921, grazie ai soldi di un vecchio compagno di classe, acquista una nave, una piccola baleniera norvegese di legno (ribattezzata per l’occasione Quest) che successivamente si rivelerà piuttosto problematica e inadeguata per viaggi del genere.
A maggio il governo canadese cambia idea e ritira il suo appoggio, così Shackleton “ripiega” su di una nuova spedizione al Polo Sud. Il 17 settembre 1921, salutato da una piccola folla festante (potete vedere il video originale qui) , parte da Londra a bordo della Quest, con lui molti dei suoi compagni dell’Endurance. Dopo circa tre mesi e mezzo di passione (problemi allo scafo, al motore, tempeste etc) arriva al porto di Grytviken, lo stesso della sosta dell’Endurance e qui, nella notte del 5 gennaio Shackleton, già provato da un malore avuto un paio di settimane prima, subisce l’infarto che interrompe per sempre il suo viaggio.
Su richiesta della moglie viene sepolto nella Georgia del Sud, nel cimitero dei pescatori di Grytviken. La tomba ha inciso una poesia di Robert Browning, “I hold that a man should strive to the uttermost for his life’s set prize”.
Uomo tenace, ma non fortunato come già detto.

Qualche giorno fa, mentre tornavo a casa, mi squilla il telefono, è mia figlia che deve raggiungere un teatro a Venezia ma si è persa. Mi dice dove si trova, io le dico che direzione prendere, in quale calle girare, che negozi passare fino a quando riconosce la strada e riaggancia. Lei non lo sa (ma lo saprà adesso, visto che di solito legge questo blog), ma perdendosi e soprattutto chiamandomi mi ha fatto un regalo prezioso.
Vecchie abitudini, voce diversa.
P.S. Per chi, leggendo questo post, ad un certo punto si è perso tra le mie parole consiglio di consultare lo schema qui sotto, (rubato da Wikipedia) che riassume le vicende narrate, più o meno.
Gruppo del mare di Weddell:
Rosso: il viaggio dell’Endurance.
Giallo: la deriva dell’Endurance bloccata dai ghiacci.
Verde: il percorso, a piedi ed in scialuppa, degli uomini di Shackleton dopo il naufragio della nave sino all’isola Elephant.
Blu: il viaggio della James Caird sino alla Georgia del Sud.
Turchese: il percorso originale della spedizione trans-antartica.
Gruppo del mare di Ross:
Arancio : il viaggio dell’Aurora
Rosa: l’Aurora rompe gli ormeggi e va alla deriva lasciando 10 uomini in Antartide.
Marrone : percorso per l’installazione dei depositi di provviste.
05.12.1914 | L’ Endurance lascia il porto di Grytviken (Georgia del Sud). |
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07.121914 | L’Endurance ha il primo contatto con il pack. | ||
24.12.1914 | L’Aurora salpa da Hobart. | ||
16.01.1915 | L’Aurora raggiunge capo Evans. | ||
19.01.1915 | L’Endurance è bloccata dal ghiaccio. | ||
24.01.1915 | Il gruppo del mare di Ross guidato da Æneas Mackintosh sbarca sul ghiaccio ed installa i primi depositi di provviste sino a 80°S. | ||
28.02.1915 | Mackintosh inizia il viaggio di ritorno per il campo base. | ||
25.03 1915 | Il gruppo di Mackintosh arriva ad Hut Point ed attende. | ||
07.05.1915 | L’Aurora rompe gli ormeggi e va alla deriva. | ||
01.09.1915 | Mackintosh lancia una nuova campagna di costruzione di depositi partendo da capo Evans. | ||
27.10.1915 | L’equipaggio dell’Endurance abbandona la nave. | ||
21.11.1915 | L’Endurance affonda. | ||
18.01.1916 | Mackintosh costruisce un deposito a 82°S. | ||
27.01.1916 | Il gruppo di Mackintosh realizza l’ultimo deposito a 83°30’S ed inizia il viaggio di ritorno verso il campo base. | ||
09.03.1916 | Muore Arnold Spencer-Smith, del gruppo del mare di Ross. | ||
11.03.1916 | Il gruppo di Mackintosh si ferma provvisoriamente ad Hut Point. | ||
09.04.1916 | Gli uomini di Shackleton mettono in mare le scialuppe dell’Endurance. | ||
14.04.1916 | Il gruppo del mare di Weddell arriva all’isola Elephant | ||
24.04.1916 | Shackleton salpa a bordo della James Caird in cerca di soccorsi. | ||
08.05.1916 | Morte di Mackinstosh e Victor Hayward del gruppo del mare di Ross. | ||
10.05.1916 | Shackleton arriva nella Georgia del Sud. | ||
20.05.1916 | Shackleton raggiunge Stromness. | ||
15.07.1916 | Ritorno dei superstiti del gruppo del mare di Ross a capo Evans ed attesa dei soccorsi. | ||
30.08.1916 | La nave Yelcho raggiunge l’isola Elephant e salva gli uomini del gruppo del mare di Weddell. | ||
10.01.1917 | Shackleton arriva a capo Evans e porta in salvo gli uomini rimasti del gruppo del mare di Ross. |
“Praticamente è come imbattersi in Elvis Presley alla Nave de Vero che ti chiede indicazioni per il bancomat più vicino” fantastico😂😂
Io mi son perso una volta, in montagna, in un posto dove il gps non prendeva… i compagni di gita mi hanno ritrovato dopo un quarto d’ora circa di urla… Non sarò Shackleton ma il mio piccolo l’ho fatto…
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Eh beh, i 15 minuti più lunghi della tua vita. I presume 😊
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