I saw it written and I saw it say
A pink moon is on its way
And none of you stand so tall
Pink moon gonna get ye all
Pink Moon, Nick Drake

A. ha gli occhi scuri, di uno scuro che non ho mai visto. Si muove con una grazia silenziosa, sembra un passerotto. Quelle rare volte che i suoi vestiti, di un’eleganza leggera, lasciano intravedere le sue braccia, o parte della schiena, il mio sguardo inciampa su dei tatuaggi sottili, delle linee che disegnano microstorie indecifrabili.
A. mi ricorda, a volte pericolosamente troppo, l’altra A., quella che mi ha lasciato con un sms per andare in un posto dove io non potevo esserci. Ho provato a raggiungerla in tutti i modi, ma nella sua torre impenetrabile, fatta di lavoro e probabilmente di amore (per citare “Alison” di Elvis Costello: “Cause I don’t know if you’ve been loving somebody / I only know it isn’t mine”), non c’è più posto per me, ammesso ci sia mai stato. Dunque ho deciso di interrompere questa visione che viveva solamente nella mia testa ma, come detto altre volte, certi sogni non hanno bisogno della spina per vivere.
Entrambe mi ricordano “Pink Moon”, il capolavoro di Nick Drake. Belle, dolci e malinconiche, con uno spruzzo di colore (loro con i tatuaggi, la canzone con le note di piano) e soprattutto incomprensibli, un po’ come il testo di questa canzone, che ascolto da anni e che ancora mi sfugge. A volte le sovrappongo, mi confondo un po’.
A. ha la passione per l’arte, in tutte le forme, e questo è indubbiamente un punto a suo favore, esattamente come l’altra A. Un giorno mi racconta di un pittore polacco, ha un nome che ricorda un medicinale, le confesso di non conoscerlo. Dopo pochi giorni, su di un muro vicino a casa mia dedicato alle affissioni pubbliche, scopro il manifesto di una mostra dedicata proprio a lui a Venezia, alla Fondazione Querini Stampalia. Buffa coincidenza.
Quando glielo dico i suoi occhi si illuminano, per evitare danni distolgo lo sguardo, mi dice che andrà sicuramente a vederla, io penso che con lei ci andrei volentieri, ma lo penso e basta.
Roman Opalka, questo è il nome dell’artista polacco, ha sostanzialmente deciso di fare dello scorrere del tempo un’opera artistica, come dice lui: “Il mio lavoro è una singola cosa, la descrizione dal numero 1 all’infinito. Un’unica cosa, un’unica vita”.

Le opere di Roman Opalka erano state esposte a Venezia altre volte, una volta addirittura a rappresentare la Polonia alla Biennale Arte del 1995 (anche se da 10 anni era diventato cittadino francese). In Francia era nato nel 1931, da genitori appena emigrati dalla Polonia che con un tempismo straordinario decisero di tornare in patria poco prima dell’invasione nazista. Insomma, neanche il tempo di ambientarsi ed ecco che arrivano quei burloni dei soldati di Hitler, che deportarono l’intera famiglia (per fortuna non di origini ebraiche) prima in un campo di concentramento in Germania e poi in prigione, a causa di un pugno sferrato dal padre a un tedesco.
“Tutto il mio lavoro è fatto solo per descrivere e contare l’inesorabile flusso del tempo, dal primo momento a un momento infinitamente futuro. Ciò che mi devasta è la nostra piccolezza: se esistiamo in un istante, il momento dopo potremmo non essere più nulla”.
Finita la guerra la famiglia Opalka riuscì a tornare in Polonia, dove il giovane Roman frequentò una scuola di grafica a Lodz prima di laurearsi all’Accademia di Belle Arti di Varsavia.

Nel 1965, nel suo studio a Varsavia, Opałka ha l’intuizione che lo rende un artista unico, ma essendo anche un uomo rigoroso, fin da subito si impone una routine quasi quotidiana per raggiungere quell’obiettivo ambizioso.
In cosa consisteva la sua idea artistica? La sua prima tela dipinta del 1965 si intitola “1965/1 – ∞” (già questo dovrebbe mettervi sulla buona strada), titolo che darà anche agli altri quadri del progetto, che avranno tutti le stesse dimensioni (196 x 135 cm). Usa queste tele come fossero pagine di un quaderno, inizia a scrivere il numero “1” in alto a sinistra e, come fosse appunto un foglio di un quaderno, continua a scrivere tutti i numeri successivi fino ad arrivare nell’angolo in basso a destra. Finita la tela passa ad una nuova, partendo col numero successivo e via così, verso l’infinito (e oltre).
Se pur ambizioso Opalka si rende conto di essere mortale, perciò fissa un tetto al numero che vuole dipingere e quel numero, tenetevi forte, è 15 162 342, cioè quelli che molti anni dopo saranno gli ultimi quattro numeri della giocata vincente (4, 8, 15, 16, 23 e 42, ndr) alla lotteria americana che aveva permesso a Hugo Reyes di vincere 114 milioni nella serie tv “Lost”!
No, scherzavo (ci sarete mica cascati?), il numero al quale Opalka mirava era il 7 777 777, che lui aveva pensato di raggiungere al compimento dei 75 anni (come è andata a finire? Non vi faccio spoiler, dovete continuare a leggere il post).
“Non dipingo il mondo, ma l’emozione dell’essere nel mondo».
Dopo 3 anni, nel 1968 perciò, Opalka, probabilmente per aggiungere un po’ di pepe alla sua vita artistica, decide di registrare su nastro la sua voce che pronuncia in polacco i numeri che sta mettendo su tela. Nello stesso anno sostituisce il fondo nero delle tele con un “meno emotivo” grigio ed inizia a fotografarsi a fine giornata in piedi davanti alla tela alla quale ha lavorato con l’intenzione di creare un ideale parallelismo fra lo sbiadire delle sue opere, lo sbiadire dei suoi capelli e del suo volto.
Per accentuare questo sbiadire, a partire dal 1972, lo sfondo grigio diventa più bianco dell’1% ad ogni nuova tela, rendendo il contrasto con i numeri (dipinti in bianco come d’abitudine) mano a mano sempre più lieve. Opalka punta al bianco assoluto, alla luce pura, oppure più semplicemente mette su tela la fragilità della “materia” e della memoria, il dissolvimento ineluttabile di ogni cosa. (Cosa si riesce a fare con un “copia-e-incolla” on line, ndr).
Opalka ha attraversato lo scorso secolo vivendo non solamente in Polonia e in Francia, ma anche in Austria (dove tra il 1985 e il 1990 insegna alla Summer Academy di Salisburgo) e in Italia, soggiornando a più riprese proprio a Venezia, in una casa alle Zitelle (Giudecca).
Ho cercato di capire come diavolo gli sia venuto in mente questo incredibie progetto, l’idea cioè di colmare in qualche modo il vuoto che lascia il tempo nel suo trascorrere inesorabile.
Cercando on line ho trovato alcune interessanti teorie, ma nessuna mi convince, e poi comunque sarebbero interpretazioni del tutto soggettive. Lascio agli interessati il compito di trovarne una che più soddisfi, come si dice nell’Oregon: “I call myself out” (“me ciamo fora”, come invece diciamo noi qui a Venezia).
Nell’estate del 2011 Opalka è di nuovo in Italia, mentre è dalle parti di Chieti ha un malore, viene ricoverato in ospedale ma pochi giorni dopo, il 6 agosto, muore, esattamanete 3 settimane prima di compiere 80 anni.
Ora che sapete tutto quello che c’è da sapere di Roman Opalka, vi starete chiedendo se l’artista sia poi riuscito a raggiungere la cifra numero 7 777 777. Già il fatto che sia finito in un post di questo blog dovrebbe essere sufficiente per capire che, ovviamente, Roman non è riuscito a realizzare il suo desiderio artistico, fermandosi ad un comunque ragguardevole 5 607 249, un numero di un certo rispetto, ma ben sotto al suo obiettivo.
Ci sono stati dei cambiamenti anche nella mia vita e ogni mese la mia barba guadagna un 1% di bianco in più, mi sono risparmiato però il registrare su nastro l’avanzamento dell’operato del tempo sul mio viso, ma solamente per pigrizia.

Altri cambiamenti mi hanno allontanato da A., che vedo molto raramente (comunque sempre più dell’altra A., quella palindroma). Da poco ha iniziato un percorso nuovo, abbandonando con coraggio quello vecchio. Non sarà molto semplice per lei, ma sono ottimista, è una donna di talento. Per quel che vale ha tutto il mio supporto, non ho alternativa, perché ci sono persone che entrano nella tua vita dal primo sguardo, a prescindere da quello che succede dopo.
C’è un film di Wim Wenders, onestamente mi ricordo poco della trama, credo fosse una specie di giallo futuristico dove i personaggi giravano la terra, ma ha un titolo meraviglioso: “Faraway, so close”.
A volte succede proprio così, si è terribilmente vicini a qualcuno anche se si è lontani, palindromi o meno.