You leave in the morning with everything you own in a little black case
Alone on a platform, the wind and the rain on a sad and lonely face
Smalltown Boy – Bronski Beat

Mia zia all’epoca aveva 65 anni, essendo nata nel 1920 a Murano.
Appena sposata aveva lasciato l’isola lagunare per andare ad abitare a Venezia, più o meno a 2 chilometri in linea d’aria.
Quello fu il viaggio più lungo che fece in vita sua, perciò io, che avevo un mappamondo sul comodino del mio letto che scrutavo ogni sera prima di addormentarmi, non la trovavo molto interessante.
Le volevo bene, come si può voler bene ad una zia, e le volevo bene ancora di più il giorno del mio compleanno, perché a partire dal mio tredicesimo iniziò a regalarmi sempre un vinile, che ovviamente le indicavo io.
Il primo fu “Uprising” di Bob Marley, e ne seguirono altri.
Nel 1985, per il mio sedicesimo compleanno le chiesi “The age of consent”, l’esplosivo disco d’esordio dei “Bronski Beat”, un trio inglese di quello che all’epoca fu chiamato “synthpop”.
Di quel gruppo non sapevo nulla, se non che ogni volta che sentivo alla radio il loro singolo “Smalltown boy“, il mio piede non riusciva a stare fermo.
Ma era evidente che non avessi capito nulla dei “Bronski Beat”. Neppure il video del loro singolo d’esordio, che metteva in immagini tutta l’amarezza di quel testo, mi aveva acceso una lampadina in testa. Nulla, quella canzone era semplicemente un pezzo divertente.
Mi ritrovai fra le mani quel magnifico vinile, e mentre nella custodia interna cercavo i testi delle canzoni, giusto per capire cosa dicessero, lessi una nota in merito alle leggi europee sui rapporti omosessuali, dove si indicavano l’età minima affinché i rapporti fossero ritenuti legali (“The age of consent”, appunto).
Che dire, trovai quelle informazioni utili, anche se poco pertinenti secondo me. Anzi, mi sembrava più interessante sapere che una delle mie canzoni preferite dell’album, “It ain’t necessaraly so”, era stata scritta 50 anni prima dai fratelli Gershwin.
Per farla breve, la mia conoscenza del mondo gay a 16 anni, se pur assolutamente in buona fede, era paragonabile alla mia capacità di parlare lo swahili.
Ciò nonostante riuscii ad apprezzare ugualmente ogni singola canzone di quello che sarebbe stato il primo e l’ultimo disco dei Bronski Beat.
Invece dietro a quell’album c’era molto di più della semplice musica.
“The age of consent” è un manifesto dell’orgoglio omosessuale, che proprio alla fine degli anni ’70 aveva finalmente alzato la testa. La musica, anzi, la “disco music” non fu semplicemente la colonna sonora di feste sfrenate, bensì divenne una forma d’arte e di ribellione, non solo per la comunità gay ma anche per tutti gli altri “misfits”.
Ad accorgersi della forza rivoluzionaria della disco non fu solamente lo show business (che di fatto veicolò l’energia creativa fino a farla diventare una semplice macchina da soldi). Purtroppo quella gioia di vivere, il coraggio di essere liberi sulla pista da ballo infastidì la parte bianca e conservatrice degli USA, al punto che un DJ della WLUP di Chicago, piuttosto famoso al tempo (tale Steve Dahl) ideò un evento degno del romanzo distopico “Farenheit 451” (dove possedere un libro era reato, e dunque bruciarli era doveroso).

Il 12 luglio 1979, per attirare più pubblico alla doppia partita della locale squadra di baseball, la WLUP organizzò quella che fu chiamata “Disco Demolition Night”. Chiunque avesse consegnato un vinile di disco music all’ingresso, avrebbe ricevuto uno sconto del 98% sul prezzo del biglietto. Il vinile sarebbe stato distrutto in un falò (esplosivo) durante l’intervallo fra le due partite.
Allo stadio si presentarono 50 mila persone in più rispetto all’ultima partita, quasi tutte interessate più a veder il falò e l’esplosione dei vinili di disco music che alla partita, e infatti quando i dischi iniziarono ad esplodere e a bruciare, gran parte del pubblico, eccitato da ore di birra e dall’odio per la disco music invase il terreno di gioco distruggendolo.
Negli USA questo episodio sancì il declino della disco music, che invece continuò a crescere e a trasformarsi in Europa, soprattutto nel Regno Unito, con band di successo come i Soft Cell, i Frankie Goes to Hollywood, i Dead or Alive e gli Yazoo.
I Bronski Beat furono decisamente quelli più politicamente impegnati, misero davanti ai loro interessi l’impegno politico e rifiutarono facili operazioni di marketing (a differenza dei Frankie Goes to Hollywood). Pur di avere il controllo sulla loro produzione, scelsero di firmare per la London Records, una casa discografica di primo livello ma non certo la più ricca e potente.
E anche il loro look rimase quello di normali ventenni dei primi anni ’80, camicie di flanella, giacche jeans e felpe col cappuccio, niente outfit pensati a tavolino, ma semplicemente i vestiti che avevano in armadio. A dimostrare la loro genuinità e il fatto che i Bronski Beat non fossero in vendita.
In fin dei conti “Smalltown boy” era la storia di Jimmy Sommerville, il cantante del gruppo, che era scappato da una Glasgow (certo, non paesotto di provincia) troppo cattolica e omofoba per non spingerlo a cercare la libertà a Londra, e non poteva diventare un gadget oppure uno slogan da scrivere su di una t-shirt.

Anche ad ascoltarle adesso, tutte le canzoni di “The age of consent” sono piccoli capolavori, anche se nella memoria collettiva spiccano le quattro trasformate in video mandati in heavy rotation da MTV (fyi “Smalltown boy”, “Why”, “It Ain’t Necessarily So” e “I Feel Love / Johnny Remember Me”).
I Bronski Beat non ressero il successo, Jimmy Sommerville lasciò la band dopo il primo disco, e continuò prima con un’altra band (un duo, i Communards) e poi da solo.
Il decennio a cavallo degli anni ’80 fu per la disco music e la comunità gay un terremoto di energia, un’onda di libertà impensabile fino a qualche anno prima. Fu una breve stagione felice, fino a quando l’AIDS divenne un mostro che spezzò la vita a migliaia di persone.
Sono passati oltre trent’anni, molte cose sono cambiate, indubbiamente in meglio. La musica dei Bronski Beat (assieme a quella di altre band) continua a trasmettere quella gioia di vivere che al tempo aiutò molti “misfits” a non vergognarsi della propria identità sessuale.
Spero che, tra un post su Instagram e l’ennesimo gruppo inutile su Whatsapp, riusciate a trovare il tempo per riscoprirla, e pazienza se non sarà attraverso un vinile. Giusto per chiarire, io la mia copia la conservo ancora e me la tengo stretta.
Mia zia se n’è andata da tempo, negli ultimi anni non la vedevo poi così spesso, e dopo quel disco non mi ricordo se me ne regalò altri.
Non sono mai riuscito a chiederle se allora avesse capito il vero significato di “The age of consent”, ma ne dubito, visto che non l’avevo capito nemmeno io, che pure i Bronski Beat li adoravo .