And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking,
People hearing without listening,
People writing songs that voices never share
And no one dared
Disturb the sound of silence
The Sound of silence – Simon & Gartfunkel
No se capisse un casso (per i non veneziani: “Il quadro non mi è chiaro”).
Quelle rare volte nelle quali la RAI trasmetteva un incontro di rugby erano queste le parole con le quali mio padre mi faceva capire che non ne voleva più sapere, e a poco valeva il fatto che la cronaca della partita fosse affidata (come al solito) ad un nostro vicino, Mirko Petternella, il Nando Martellini del rugby, (o forse sarebbe più giusto dire che Nando Martellini era il Mirko Petternella del calcio).
Pronunciata la sua sentenza, di norma alla seconda mischia, mio padre si alzava dalla poltrona e andava sul tavolo in cucina a finire la sua Settimana Enigmistica, e mi lasciava da solo a cercare di capire quel rebus fatto di omoni con maglie larghe, orecchie consumate da sfregamenti continui, tutti impegnati a recuperare una palla ovale che rimbalzava a caso.
Facile intuire che il rugby non poteva diventare lo sport preferito della mia gioventù, a dire il vero lo ignorai per anni, un po’ per snobismo veneziano, visto che si tratta dello sport più amato da rovigotti (più correttamente detti rodigini), trevigiani e padovani, insomma dai sudditi della periferia dell’impero, e un po’ perché se non l’hai giocato, difficilmente lo puoi amare davvero. Aggiungiamoci poi che all’epoca i giocatori erano tutto fuorché glamour, spesso in sovrappeso, con maglie larghe a nascondere i muscoli (comunque poco segnati), nessun tatuaggio, nessun atteggiamento da rockstar.

Negli ultimi tempi, da quando il rugby è diventato di moda, ho continuato a non seguirlo più di tanto, sempre per snobismo (com’è squallido salire sul carro dei vincitori…) ma anche perché, per chi è cresciuto nei campi da calcio della provincia come me, dove l’arbitro è un’autorità da imbrogliare e dove quasi sempre ci si mena più in tribuna (in mancanza degli ultras ci sono sempre i genitori) che sul campo, questa storia del terzo tempo non mi è mai andata giù.
Mi rifiuto di credere che a fine partita, magari pure persa, si finisca a bere tutti assieme, a fare grigliate con i genitori della squadra che ti ospita, il tutto poi con quel sorriso cucito sul volto di chi sa di essere dalla parte del giusto, inconsciamente grato di non essere un umile plebeo che calcia un pallone rotondo.
Ma di nuovo, lo spirito del rugby è una cosa che difficilmente si può capire standone fuori, come faccio io.
Un mio amico ha giocato per anni in una squadra amatoriale che, come spesso capita nelle squadre amatoriali, era politicamente monocolore (o tutti rossi, la maggioranza, o tutti neri, la minoranza).
La sua squadra era (è) completamente rossa, tranne che per un tizio, un gigante di muscoli con la scritta “Patria, onore e libertà” tatuata sulla schiena, giusto per non lasciare dubbi sul suo orientamento politico, ma durante le partite questo non contava, non ha mai intaccato la fiducia del mio amico che sapeva che quando giochi in una squadra sei parte di un unico organismo, tu guardi le spalle dei tuoi compagni e loro le tue.
Perché il rugby è fatto così.
Il 24 marzo 1976 il tenente generale Jorge Raffael Videla, nominato da pochi mesi capo dell’esercito argentino dalla presidente Isabelita Peron (ex ballerina di nightclub, terza moglie del “compianto” Peron), decide che ne ha le scatole piene di quel governo e organizza un colpo di stato, a sgombrare il campo da ogni parvenza di democrazia, iniziano così i cinque anni di una delle dittature più feroci dell’epoca moderna.
Dire che tutti i guai iniziarono nel 1976 non sarebbe corretto, visto che i sicari del governo Videla, la tripla A (Alleanza Anticomunista Argentina) erano attivi e sostanzialmente impuniti da almeno tre anni, infatti anche l’inizio di questa storia (che ho ascoltato nella trasmissione radiofonica “Numeri primi”, recuperate il podcast, quasi meglio de Il Poltronauta) è precedente al golpe di Videla & friends.
Tutto inizia il 27 marzo 1975, quando uno squadrone della tripla A sequestra uno studente di medicina, simpatizzante di sinistra, tale Hernan Francisco Rocha. Il giorno dopo, venerdì santo, il suo corpo viene trovato senza vita, trafitto da 21 proiettili, bendato e con le mani legate dietro la schiena. Con ogni probabilità i sicari della AAA hanno commesso un errore, il Rocha che cercavano non era Herman, ma suo fratello Marcelo, lui sì impegnato politicamente, attivista del movimento dei Monteneros.
Il più grande peccato di Hernan era quella di giocare nel La Plata Rugby Club, che al tempo ha la fama di essere una Escuela de guerilleros (scuola di guerriglieri) perché quasi tutti i giocatori sono iscritti ad associazioni di sinistra, ma principalmente quei giocatori sono solo dei ragazzi che amano soprattutto il rugby ed infatti, in modo un po’ goliardico fra di loro dicono (scherzando) di far parte dell’Esercito rivoluzionario del cigno (cioè “de noantri”).
Per tutti gli avversari e per i tifosi invece loro sono Canarios, i canarini, grazie al giallo dei colori sociali che ricordano da lontano quelli del Boca Juniors.

La domenica successiva all’omicidio i Canarios devono giocare una partita del campionato, i compagni di Hernan Rocha sanno esattamente chi l’ha ucciso, non possono far finta di niente, esigono ed ottengono che venga rispettato un minuto di silenzio prima del fischio di inizio.
I giocatori de La Plata Rugby Club si stringono così in un unico abbraccio e per un lungo, infinito minuto se ne stanno in silenzio a metà campo, l’arbitro fischia, ma i giocatori non si muovono, passa un altro minuto, poi un altro ancora, solamente alla fine di 10 interminabili minuti i Canarios decidono che si può giocare.
Dieci minuti di silenzio che dicono molto più di mille parole, è un’accusa senza precedenti ad una dittatura ancora ufficiosa, fatta da parte di giovani di varie estrazioni sociali, legati però dallo spirito del rugby.
Tra i tanti difetti che hanno normalmente i militari di una dittatura quasi sempre c’è la mancanza di fair play, e certamente Videla & friends non fanno eccezione, infatti decidono che un gesto del genere, una provocazione così grave non può restare impunita.
Mentre ascolto la storia alla radio (storia che è anche uno spettacolo teatrale scritto da Claudio Fava) mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano avuto un tale coraggio, ma è anche questo che ti insegna il rugby, un modo di vivere più che un semplice sport, fatto di educazione, sforzo, rispetto, silenzio, lavoro, altruismo e soprattutto molta umiltà.
Come ha detto Raul Barandiaran (ora architetto), all’epoca giocatore dei Canarios (ma non presente nella partita dei dieci minuti di silenzio, e per questo “graziato”) in occasione della prima dello spettacolo teatrale:
“Sapevamo ciò che stava accadendo, però i nostri 20 o 23 anni di quell’epoca ci facevano sentire invulnerabili. Percepivamo i pericoli che la militanza implicava, però non si arrivava a comprendere che ‘eliminare la sovversione’ significava eliminare una forma di pensare”

I generali decidono che tutti i giocatori dovranno pagare quei dieci minuti di silenzio assordante, e con calma pagheranno tutti, chi ucciso a casa, qualcuno mentre va al lavoro, oppure rapiti dopo l’allenamento, comunque sempre in silenzio, questa volta alleato dei generali.
Il primo è Pablo del Rivero, ha 24 anni quando l’8 luglio 1975 sparisce nel nulla, l’ultimo è Julio Alberto Alvarez, volatilizzato il 28 giugno 1978, 3 giorni dopo la vittoria dell’Argentina ai mondiali di calcio, in mezzo altri 14 Canarios, quasi tutti vanno ad ingrossare le fila dei desaparecidos, che come ebbe a dire una volta il generale Videla (con una certa dose di black humor): ” (un desaparecido) Non è né morto né vivo, possiamo solamente sperare che un giorno torni.”
Faccio spoiler, nessuno dei Canarios desaparecido è mai tornato.

Ecco, forse se mio padre avesse saputo di questa storia mentre la RAI trasmetteva le partite dallo stadio di Rovigo, lui, vecchio partigiano per il quale l’Argentina era quello che l’Oceano Indiano era per Salgari, magari si sarebbe innamorato del rugby. E non mi avrebbe lasciato da solo a decifrare quelle mischie nel fango.
In fin dei conti il rugby è uno sport socialista, dove il proletariato si unisce e da singoli (quasi) indifesi diventa un pugno chiuso spinto da cosce muscolose, uno sport dove per avanzare passi la palla indietro, dove l’aiuto viene sempre dai compagni che non ti lasciano mai da solo, uno sport dove si vince e, soprattutto, si perde sempre assieme.

Nel 2007 Videla, che non ha mai avuto nessun pentimento pur ammettendo la sua responsabilità diretta nella morte di 8.000 persone, scontava la pena (in realtà ne scontò una frazione) nel carcere “Marcos Paz” di Campo de Mayo, a Buenos Aires. Ad un giornalista che gli chiese se i fantasmi del passato lo tormentassero, rispose di avere qualche “peso sull’anima”, ma che ciò non gli impediva di dormire benissimo.
Beato lui, io faccio fatica ad addormentarmi la sera se durante la giornata ho preso un bus senza biglietto.
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