In occidente non esiste la cultura del perdente, solo l’esaltazione del vincitore. Ma è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell’uomo.
(Leonard Cohen)
“Vincere con modestia e perdere con leggerezza: questo è il marchio di un grande sportivo (uomo).”
(Gareth Edwards)
Il revival è una tendenza che è sempre stata presente nell’umanità, pescare qualche forma artistica del passato, riproporla in chiave moderna (a volte neppure quello) e stare a vedere che succede. Questo vale per la musica, l’architettura, la moda e sostanzialmente per tutto lo scibile umano.
Verso la fine del ‘900 il revival si è concentrato soprattutto nella moda e nella musica, a partire dagli anni ’80 si è guardato a vent’anni prima per ripescare brani musicali e look. A dire il vero, se pur in forme minori, anche negli anni ’70 si era guardato agli anni ’50 (vedi American Graffiti e Happy days) per ispirare film e musica. In Italia il revival esplode nel 1981, quando un’artista tormentato (diciamo così) ripropone con le sonorità che stavano prendendo piedi in quegli anni i classici “pop” italiani degli anni ’60. Esce “Duemila60 Italian Graffiati” di Ivan Cattaneo, che replicherà nel 1983 con “Bandiera Gialla”, per un totale di quasi 900 mila copie vendute.

Nei decenni successivi i “revival” toccherà tutte le epoche, spesso ignorando la regola dei vent’anni prima, anticipando di continuo i recuperi fino a mescolare il tutto nel grande frullato di questi ultimi anni, complici la tecnologia, la fretta e la nostalgia imperante.
Una cosa è certa però, fra tutti i decenni recuperati, quello del quale non ce ne libereremo mai sono gli anni ’80. Ho cercato di capirne il motivo, ma credo che le cause siano molteplici. Innanzitutto gli anni ’80 sono stati i primi spensierati, con adolescenti figli del boom industriale, senza più la guerra come ricordo costante, gli anni di piombo erano (quasi) finiti e c’era un benessere quasi irreale. Consideriamo pure che quella generazione è stata la prima con la “sindrome di Peter Pan” su scala nazionale (ben prima degli attuali trentenni con le maglie a righe che usano la lavatrice per mettere la birra in ghiaccio), ed infine i superstiti di quegli anni sono forse l’ultima generazione con una discreta, per quanto ridotta, disponibilità economica, e dunque soggetti perfetti per continuare a consumare quel tipo di musica e quel tipo di atmosfere. Guardatevi attorno, ad ogni sagra di paese, ad ogni festa di capodanno troverete sempre un richiamo agli anni ’80, una presenza musicale molto maggiore rispetto al decennio precedente o successivo. Metteteci l’effetto nostalgia di Facebook e il gioco è fatto, non c’è speranza, moriremo con Nik Kershaw in sottofondo.
Ma gli anni ’80 non sono stati i migliori 10 anni del ‘900. Musicalmente qualcosa si salva, non certo quello che è arrivato a noi, ma è la filosofia di base, l’arroganza individualista che ha pervaso quegli anni (sintetizzata nell’espressione “Edonismo Reaganiano” di un giovane e geniale Roberto d’Agostino) che ha avvelenato i pozzi, che ha trasformato gli anni successivi in quelli che stiamo vivendo.
La cosa che più detesto di quegli anni è la consacrazione della parola “vincente”, non che prima non si usasse, ma è negli anni ’80 che “essere vincenti” vuol dire essere migliori degli altri, essere nel giusto, e di conseguenza la parola “perdente” diventa la peggiore delle offese (un po’ come definire qualcuno oggi “buonista”), come se la sconfitta fosse un’onta irreparabile.
Io invece ho sempre trovato più affascinante la sconfitta che la vittoria (e grazie al c***o, sono interista), è nella sconfitta che le persone trovano il meglio di sé, è nella sconfitta che si nasconde la poesia che non ti aspetti, la vera grazia.
Tra il norvegese Amundsen (primo uomo a raggiungere il polo sud) e il britannico Scott, che lo raggiunse in una sfortunata missione solamente 4 settimane dopo e che morì, assieme ai suoi uomini, nella via del ritorno, non posso che scegliere quest’ultimo.
Fra l’arroganza di Arrigo Sacchi, che sosteneva di esser convinto di poter vincere una partita al 90esimo anche se sotto di 3 gol, e la faccia da attore di spaghetti western di Hector Cuper (che di finali ne ha perse 7 senza contare il 5 maggio dell’Inter) non posso che schierarmi con lui, l’Hombre vertical.
Fra gli occhi tristi di un Gorbacev imbolsito e lo sguardo da supermacho di Putin, sceglierò sempre il coraggio del padre della Perestrojka, che ha sacrificato la sua corona per cercare di regalare al mondo un futuro migliore (non che ci sia riuscito).
Fra Buffon ubriaco che alza la coppa del mondo dall’alto di un bus scoperto con tanto di scritta in fascio-font “Fieri di essere italiani” (e croce celtica) sotto e il capo chino di Roberto Baggio subito dopo il rigore sbagliato in finale a USA 94 il mio cuore sarà sempre per il divin codino, per la sua sconfitta che lo ha trasformato da eroe a uomo comune, rendendolo immortale ai miei occhi (fra i due comunque preferisco Dino Zoff che abbraccia Bearzot a Madrid nel 1982, perché vabbè glorificare la sconfitta, ma anche alcune vittorie sono piene di poesia).
Quello che voglio dire è che non c’è nulla di male nell’essere perdenti, che anzi una sconfitta può ispirare ed insegnare molto di più rispetto ad una vittoria.
Per questo ho deciso di regalarvi la seconda playlist, questa volta sono 10 canzoni ideali per accompagnare una vostra sconfitta.
Potete ascoltare la playlist qui mentre leggete il post: 10 CANZONI PER UNA SCONFITTA
El pueblo unido jamás será vencido – Inti-Illimani
Y ahora el pueblo que se alza en la lucha / con voz de gigante gritando: Adelante! / El pueblo unido jamas sera vencido / El pueblo unido jamas sera vencido!
Da bambino ero convinto che tutti avessero a casa almeno un disco degli Inti-Illimani, mio padre ne aveva tre, con delle meravigliose copertine colorate, e le foto in bianco e nero dei gloriosi compagni componenti della band nel retro, uno di questi era un ragazzotto dai capelli lisci e i baffi appena accennati che mi ricordava tantissimo un mio cugino, fra tutti il preferito, e forse per questo quei dischi mi piacevano molto.
Nel settembre 1973 gli Inti-Illmani erano in tournée in Italia quando un cinquantenne tedesco dal passaporto americano e di origine ebraica decise che non c’era “alcuna ragione per cui ad un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile.”, così diede il semaforo verde del governo USA al comandante Pinochet per liberarsi con la forza del presidente cileno Allende. Gli Inti-Illimani, che di quel governo erano una specie di soundtrack ufficiale, si ritrovarono bloccati da noi, in esilio forzato, costretti a “fare il gruppo delle feste dell’Unità” per tutta la loro vita, imprigionati in una gabbia dalle sbarre fatte di salsicce e “costicine” arrostite. Questa è forse la loro più canzone più famosa (che poi nemmeno è loro), e qualsiasi persona di sinistra l’ha cantata almeno una volta, prima che essere di sinistra diventasse una colpa. Cantatela quante volte volete, ma in questo caso una bugia non diventa realtà a forza di ripeterla, ho brutte notizie per voi, il popolo non vincerà mai. Ecco, magari qualche piccola battaglia si, ma la guerra mai, non per questo però bisogna smettere di provarci.
Parafrasando il maestro Sergio Leone: “Quando i compagni con megafono e gli striscioni incontrano gli uomini con gli elmetti e i carroarmati, i compagni con megafono e gli striscioni sono compagni morti”

A santa Maria Magior – Alberto D’Amico
Basso de la rotonda / ghe gera i fiori freschi pa’ ‘l “Banana” / che ‘l xe ‘ndà fora / co la campana
Il disco che contiene questa canzone è una capsula del tempo, uno documento che andrebbe fatto ascoltare a chi voglia sapere come era Venezia negli anni ’70, per spiegare come fosse possibile che in un Veneto democratico-cristiano a Venezia la maggioranza fosse rossa comunista. Non solo, i personaggi raccontati da D’Amico sono tutti ai margini della società, perdenti e arrabbiati, affamati e alcolizzati, le loro storie sono l’eredità che i veneziani dovrebbero riscoprire, se non fossero tutti sazi e ricchi. Questo disco vale come un documentario di Pasolini, non so se nemmeno ‘l Banana sia mai esistito , ma mi sorprenderebbe il contrario. E tra un cardinale porporato e un criminale con la pancia vuota, sapete già da che parte sto.
Da ascoltare mentre guardate “Porta a Porta” senza audio.
Cause – Rodriguez
“My Estonian Archangel came and got me wasted / Cause the sweetest kiss I ever got is the one I’ve never tasted”
Ho scoperto la storia di Rodriguez leggendo su Rumore della ristampa da parte della “Light in the Attic” dei suoi due primi (e unici) album, la recensione dei dischi parlava anche della sua incredibile storia personale. Inutile che ve la racconti, se non la conoscete guardate “Searching for Sugarman”, lo straordinario documentario che permise ad un giovane autore svedese (di origini algerine) di vincere l’Oscar. Guardatelo, e vedrete la magia di questo perdente che non si è mai arreso nella vita, ma non arreso nella ricerca del successo, semplicemente non si è mai fermato, ha continuato a vivere la sua vita, qualsiasi cosa il destino gli tirasse in faccia. Scoprirete anche le parole profetiche di questo brano. Il regista invece, che girò parte del finale del documentario con un iPhone 5, dato che aveva finito i soldi, qualche anno dopo l’Oscar decise che andava bene così, che era arrivato il momento di togliersi dai piedi, e si suicidò. Forse avrebbe dovuto chiamare Rodriguez, per farsi spiegare come non farsi fregare dal destino.
Da ascoltare il giorno del vostro licenziamento.

Pancho Villa – Sun Kil Moon
Why have they gone / Fell by leather / So alone / All bound together
Il disco è tra quelli che il mio amico Tim mi mandava ogni tanto, con le copertine rifatte da lui, quasi sempre migliori delle originali, s’intitola “Ghosts of the Great Highway”, suonato ed interpretato da una band dal nome coreano: “Sun Kil Moon”. In realtà è una band americana, capitanata da tale Mark Kozelek, non proprio il tipo di personaggio che vorresti ad una festa di laurea. Il nome della band si ispira ad un boxeur coreano (Moon Sung-kil), e nell’album ci sono ben tre canzoni dedicate a boxeur, la figura di perdente per antonomasia, pure quando non finisce KO. La cosa particolare non è che tutti i 3 boxeur citati sono morti (ovviamente) ma che tutti e tre avessero 23 anni il giorno della loro dipartita. C’è chi morì in un incidente stradale, come il messicano Salvador Sanchez, chi in seguito ai pugni ricevuti in un combattimento, come Duk Koo Kim, passato dal tappeto del ring all’obitorio attraverso i pugni di Ray “Boom Boom” Mancini, o chi, come il filippino “Pancho Villa” (nome d’arte di Francisco Guilledo) che negli anni ’20 fu stroncato da un’infezione trascurata alla gola. Ecco, non credo esista al mondo figura più perdente di un boxeur, che già da vittorioso sul ring ha sempre quell’aria da chi semplicemente la sconfitta l’ha rimandata alla prossima volta.
Bene, da ascoltare alla fine di una di quelle giornate che sembrano essere esistite solamente per prendervi a pugni in faccia, per ricordarvi che i pugni veri sono tutta un’altra storia.
Fields of Athenry – The Dubliners
Low lie, The Fields Of Athenry / Where once we watched the small free birds fly / Our love was on the wing / We had dreams and songs to sing.
14 giugno 2012, verso sera, sto guardando alla TV la partita Spagna – Irlanda valida per il primo girone dei campionati Europei di Polonia e Ucraina. Di fronte due squadre di calcio che più differenti non potrebbero essere, a tratti non sembra nemmeno giochino allo stesso sport. Fa tristezza vedere il vecchio allenatore Trapattoni che urla qualcosa in un inglese incomprensibile ai suoi giocatori irlandesi, è come vedere una battaglia tra un esercito armato di sciabole e uno di fucili a ripetizione. Siamo già sul 4 a 0 per la Spagna mentre dagli spalti coperti di verde (i colori dell’Irlanda) si sente un coro che non capisco. Sembra sempre sul punto di finire, ma poi riparte, un coro fatto di 30 mila irlandesi che cantano per la loro squadra mente viene macellata dal tiki taka spagnolo. Nemmeno quando la partita finisce il coro si interrompe.
Quella canzone, scoprirò dopo, è un brano folk degli anni ’70: “The Fields Of Athenry”, racconta la storia di un giovane irlandese dell’800, che scoperto a rubare viene mandato in prigione in Australia, e per questo deve dire addio alla sua amata.
Questa è La Sconfitta definitiva (le centinaia di giovani spediti nelle colonie penali), l’ennesima disgrazia che ha colpito il popolo irlandese mentre era soggiogato dalla corona Inglese, che volete che sia perdere una partita di calcio? Uno dei primi voli che prenotai come agente di viaggio fu proprio un volo Venezia-Dublino con la Air Lingus per una tipa irlandese che di nome faceva Orla, la ragazza mi pagò tutta felice per aver acquistato un volo così economico (Ryan Air non esisteva ancora), purtroppo però la tariffa non valeva per le date da lei scelte, quando la chiamai in agenzia per spiegarle il tutto non fu nemmeno troppo sorpresa, mi guardò con quei suoi occhi blu irlanda e mi disse “The luck of the Irish“, così, senza rabbia né odio, perché è nel DNA degli irlandesi che le cose quasi sempre vadano male. Nella playlist ho messo la versione dei Dubliners, dal vivo, giusto per enfatizzare di più. E se non vi viene un groppo in gola riascoltatela fino a quando non vi verrà da piangere.
Da ascoltare quando la vostra squadra del cuore perde.

Non, je ne regrette rien – Edith Piaf
“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien/ C’est payé, balayé, oublié, je me fous du passé”
Piccola, fragile, dalle origini umili e tormentata dalla mala sorte, figlia di artisti di strada e bambina prodigio del canto, una straordinaria perdente di successo con una voce da usignolo, che assaporò la fama e l’amore con morsi strappati ad una vita funestata da tragedie e malattie. Questa canzone fa parte dell’ultima parte della sua brevissima vita, cantata per la prima volta nel 1960 dal vivo all’Olympia di Parigi su richiesta del direttore artistico di quel teatro, che così giocava la sua ultima carta per risollevare le sorti dell’Olympia (cosa che tra l’altro funzionò). Da li a poco, nel 1963, Edith Piaf sarebbe morta, con il corpo martoriato dall’artrite reumatoide, abuso di medicinali, cirrosi e altro ancora. Ma per gli studiosi di questa icona della musica francese, Edith Piaf aveva iniziato a morire nel 1949, quando il più grande amore della sua vita, il boxeur Marcel Cerdan, perì in un incidente aereo alle Azzorre, di ritorno da News York (Wikipedia suggerisce che la cantante avesse chiamato l’ama prima della partenza dicendogli: “Prendi l’aereo, se prenderai la nave avrò il tempo di morire, mi manchi troppo.”).
Pezzo ideale per chi, pur avendo sempre perso nella vita, non cambierebbe nulla del suo passato.
My Way – Frank Sinatra
I’ve loved, I’ve laughed and cried / I’ve had my fill, my share of losing / And now, as tears subside, I find it all so amusing / To think I did all that / And may I say, not in a shy way / “Oh, no, oh, no, not me, I did it my way”
Di Frank Sinatra, The Voice, avevo già scritto un’altra volta (leggere qui se volete), inutile cercare di riassumere la sua vita in poche righe. “My Way”, cover di una canzone francese, è la cosa che più facilmente la può riassume, lui che la vita l’aveva veramente vissuta a suo modo, dato sconfitto decine di volte, superato dalle mode, ma alla fine capace di risorgere sempre, nonostante per lunghi tratti della sua esistenza abbia bruciato la candela da entrambe le parti. Ho una versione di “My Way” registrata nel 1970 a Londra, in uno di quelli che avrebbe dovuto essere l’ultimo concerto della sua vita. Sui 5 minuti abbondanti del pezzo, quasi 2 sono di applausi che accompagnano The Voice verso la fine. Chissà se avesse registrato i suoi ultimi due album con Rick Rubin cosa potremmo ascoltare oggi. Per me uno splendido perdente travestito da vincente.
Pare che le sue ultime parole, così come riportato dai figli, furono furono: “I’m losing”, “Sto perdendo”.
Ne me quitte pas – Nina Simone
Ne me quitte pas / Je t’inventerai / Des mots insensés / Que tu comprendras
Un’altra anima tormentata, un’altra artista sconfitta e quasi dimenticata fino a quando un anonimo pubblicitario la salvò dall’oblio e la fece conoscere alle nuove generazioni. Nina Simone (nata Eunice Kathleen Waymon) era una bambina prodigio che veniva da una povera e numerosa famiglia della Carolina del Nord. A dodici anni fece il suo debutto sul palco, ma quando si accorse che i genitori dalla prima fila erano stati obbligati a mettersi in ultima, nella zona dedicata ai neri, si rifiutò di suonare fino a quando i suoi genitori tornarono ai loro posti originali, giusto per far capire di che pasta fosse fatta. Abbandonò gli studi classici (pagati dalla comunità della chiesa che frequentava) quando incontrò il jazz e divenne una star, fino ad inizio degli anni ’70, quando la sua attività politica, la sua lotta al razzismo divenne predominante, e la sua carriera musicale fu penalizzata. Da quel momento girò il mondo, tornando di rado negli USA e stabilendosi a Nizza, in Francia. Poi improvvisamente nel 1987 un pubblicitario ripesca un suo brano di quasi 30 anni prima, “My Baby just cares for me”, come musica per uno spot dello Chanel n.5, e anche la mia generazione la scopre, restituendole un po’ di quella gloria che le era stata negata negli ultimi anni. Ascoltatela ogni tanto, ha una voce unica ed una forza incredibile. Questo pezzo, “Ne me quitte pas”, cantato in un francese dal forte accento americano è una di quelle canzoni che ti fa torcere le budella, che riassume in pochi minuti una delle più classiche sconfitte che ti può capitare, la sconfitta in amore. L’originale è di Jacques Brel, ma anche mettendo a confronto la vita dei due, non posso che preferire quella di Nina Simone.
Il pezzo migliore per “festeggiare” il ritorno nel mondo dei single.

Society – Eddie Vedder
Society, have mercy on me / I hope you’re not angry if I disagree / Society, crazy and deep / I hope you’re not lonely without me
Me lo ricordo quel piccolo articolo su di un quotidiano, raccontava del corpo di un ragazzo recuperato dentro ad un bus abbandonato, a pochi metri dalla strada principale, in una zona sperduta dell’Alaska. L’articolo diceva che il giovane era morto di stenti perché impossibilitato a muoversi dopo la rottura di una gamba. Ma la sua storia, almeno come raccontata nel suo diario di quasi 120 giorni, non è la semplice storia di uno sprovveduto e sfortunato escursionista. La sua è la storia di una ribellione impossibile, destinata alla sconfitta perché non c’è vittoria all’orizzonte per chi vola troppo vicino al sole. Ma com’è dolce e giusto ribellarsi a vent’anni! Eddie Vedder interpreta questa canzone (nemmeno scritta da lui) al suo solito, con quella voce che ti mette spalle al muro. Il brano si trova nella colonna sonora del film che Sean Penn dedicò alla sfortunata vicenda di Christopher McCandless, il ragazzo che scappò da una società che lo voleva laureato ed inquadrato, e che finì per morire di stenti dentro ad un bus abbandonato. Forse si trattava semplicemente di un cazzone sprovveduto, che ha fatto una fine da pollo, ma non riesco a non amare quel ragazzo con un sogno così grande, e poi ad uno che scriveva sul suo diario di adolescente fuori tempo massimo una frase come “Happiness is only real, when shared.” come non potete volergli bene pure voi?

Lower your eyelids to die with the sun – M83
Come è giusto che sia, ogni playlist che si rispetti deve finire con un brano strumentale. In questo caso ben 10 minuti di musica di una band francese, gli M83. Non chiedetemi chi siano, cercate su Wikipedia, so solo che un giorno mi sono trovato un paio di loro album sul mio iPod, e questo brano in particolare ritorna ogni tanto nei miei ascolti casuali. Ed ogni volta mi fermo, chiudo gli occhi e mi immagino di ascoltarlo sotto la pioggia, camminando contro-vento verso l’ignoto. Ecco, mi immagino il buon Shackleton sul ponte della Quest mentre, nemmeno cinquantenne, riprova a raggiungere il Polo Sud, questa volta per davvero. Ma anche questa volta non ci riuscirà, tradito dal cuore il 5 gennaio 1922, mentre dormiva nel porto baleniero di Grytviken, nella Georgia del Sud, in attesa che il mare finalmente si calmasse. Sconfitto da una specie di scherzo.
Da ascoltare mentre siete in strada, in clamoroso ritardo per il vostro lavoro, così, per darvi un tono un po’ più epico.
Finisce così questo lungo e musicale post, a breve potrebbero uscire dei bonus track, oppure no.
Nel frattempo buon (ri)ascolto.
w i perdenti!!
non per niente una delle correnti cinematografiche che prediligo (anzi, quella che prediligo in assoluto), è quella New Hollywood che ha fatto della condizione del loser un tema portante…
(scusa se porto sempre il discorso sul cinema, ma è deformazione “bloggara”)…
se posso aggiungere una canzone alla playlist, metterei Il fannullone di De Andrè…
ciao!
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Sempre w i perdenti! Soprattutto per stare lontani dall’arroganza dei vincenti. Mi sa poi che oltre al Fannullone avrei potuto mettere mezza discografia di de andrè, un altro che nei loser vedeva la poesia.
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