Riceviamo questo racconto e non possiamo che pubblicarlo, buona lettura.
Hanno ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa
Forse quelli della mala, forse la pubblicità
Hanno ucciso l’Uomo Ragno, non si sa neanche perché
Avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè
Hanno ucciso l’Uomo Ragno – 883
Mi è capitato l’altro giorno di aprire dei vecchi scatoloni dimenticati in soffitta, lasciati a prendere polvere, dopo il trasloco da casa dei miei a quella dove vivo adesso con mia moglie. Il fondo del cartone mi restituisce un album del 1992, “Hanno ucciso l’uomo ragno” degli 883, con un giovane Max Pezzali che già metteva gli accenti a caso ed il sempre inutile Mauro Repetto.
Ora, per carità, non è da farne un vanto avere di questi cd ma le canzoni d’esordio si distinguevano per i testi semplici e diretti e le musiche non troppo ricercate ma molto orecchiabili, figurarsi se non entravano nella testa di un io imberbe dodicenne.
Abitualmente il nome del personaggio Uomo Ragno è scritto con le iniziali maiuscole, ma sulla copertina dell’album risulta scritto con le iniziali minuscole. Max Pezzali stesso, interrogato su questo personaggio, ha dichiarato:
«L’Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti. Forse non è morto. Mi piace pensare che sia ancora da qualche parte a coltivare il sogno, la chimera…»
Vabbeh, comunque per chi è nato negli anni 80e soprattutto di fede nerazzurra, l’Uomo Ragno aveva un nome preciso, oltre ovviamente Peter Parker, ed era Walter Zenga.
Per la sua carriera lascio parlare Wikipedia, ma bisogna sapere che negli anni della famosa “Milano da bere”, Zenga era un personaggio a tuttotondo dalla radio alla televisione, dai rotocalchi rosa, di cui fare le fortune, ai studi di registrazione, incidendo infatti un disco intitolato “Dal tuo amico Walter Zenga”.
Capelli a zazzera, ciuffo sugli occhi, collana d’oro ostentata fuori della maglia, chewingum in bocca, fu una vera e propria icona, con il suo sguardo perennemente da duro rivolto ai fotografi ed alle telecamere el’atteggiamento da bullo sfrontato ed a tratti folle.

Dotato di uno stile spettacolare, di riflessi fuori dal comune e da doti acrobatiche eccelse, che in certe giornate lo rendevano praticamente imbattibile, privilegiava sempre l’intervento spettacolare e plateale rispetto al piazzamento, facendo suo l’insegnamento di Albertosi: “La teatralità del gesto sempre e comunque, la spettacolarità nell’intervento prima di tutto”.
Per un interista come me innamorarsi di questo calciatore stato è quasi naturale, soprattutto se la rete ho sempre preferito averla alle spalle e difenderla invece di gonfiarla. Già, io sono uno di quei outsiders del calcio, di quei folli che si sentono più tranquilli a cercare di impedire alla palla di far gol, imprigionati nel campo dalla legge dei rettangoli. Io il richiamo della porta lo ho sempre avuto fin da piccolo, nei campetti dell’oratorio, nei parchetti tra due zaini fino ai primi campi della scuola calcio.
E’ qui che mio papà incomincia a chiamarmi “Piccolo Zenga”, lo faceva sempre quando mi vedeva rientrare a casa col borsone o con un pallone sottobraccio: “ Come è andata Piccolo Zenga?”. Ed io subito a rispondergli con la logorrea che solo i bambini sanno avere.
Intanto arriviamo al 31 dicembre del 1989, mentre tutti si apprestano a salutare il nuovo anno, papà viene colto da malore e portato in ospedale.
Lo rivedrò tornare a casa 8 mesi dopo, periodo nel quale viene sottoposto ad interventi chirurgici che non sortiscono gli effetti dovuti e ce lo restituiscono con una invalidità civile del 100%. Stenta a riconoscermi, si confonde con date e avvenimenti ma, con le amorevoli cure di mamma, riesce a recuperare un po’ e si ricorda del suo “Piccolo Zenga”.
Mentre passano gli anni ed io lentamente mi trasformo da bambino ad adolescente, da teenager a giovanotto, non passa volte che quando mi vede rientrare a casa col borsone continua a domandare “Allora, come è andata Piccolo Zenga?”; solo che stavolta le mie risposte sono un po’ più secche, a volte stizzite, da giovane ribelle che non sono mai stato, ma mai date con cattiveria, per ferirlo: solo frutto a volte di stanchezza, ignoranza forse o non accettazione del fatto che non si rendesse conto di quanto ero diventato uomo.
Arriva anche il momento che a casa ci torno sempre meno e mi fermo a dormire dalla mia compagna, sempre più spesso il mio posto a tavola resta vuoto fino a che abbandono il nido per andare a costruire la mia famiglia ma quando chiamo o passo dai miei per salutarli, ecco sentirmi chiedere “Come va, Piccolo Zenga?”.
E stavolta io rispondevo con più dolcezza. Me lo chiede anche il giorno del matrimonio, dove forse per la prima volta lo vedo veramente felice. Un pomeriggio mi chiama al lavoro mamma dicendomi che papà non si sentiva bene avrebbero chiamato l’idroambulanza, ero a fine turno e mi precipito a casa di corsa: papà era già confuso quando arrivo ma riesce ancora a riconoscermi e sussurrarmi “Sei qui, Piccolo Zenga…, e accolgo l’ultimo respiro di mio padre mentre si accascia su di me.
Oggi Zenga allena il Venezia e quell’uomo che io credevo così inarrivabile di sono riuscito ad incontrarlo e stringergli la mano, vorrei raccontargli cosa è stato lui per me, quel filo che è stato lui ed ha legato me e papà nelle nostre vite, e poi mi dico “ Cose vuoi che gli possa interessare?”.

Qualcuno diceva che chi muore non se ne va, è come se fosse nascosto nella stanza accanto; a volte spengo le luci e appoggio il volto sulla parete e penso: “Parlami ancora papà, ti ascolta ancora il tuo Piccolo Zenga….
In lacrime, ti ringrazio
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Ringraziamo Damiano, tutti e due 😊
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ma chi te l’ha mandato questo racconto in pieno stile poltronauta?
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Un amico 😊
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