Muri puliti, popoli muti

E dice: “Qui da noi, in fondo, la musica non è male,
quello che non reggo sono solo le parole”.
Ma poi le ritrova ogni volta che va fuori
dentro ai manifesti o scritte sopra i muri

Eugenio FInardi – Musica Ribelle

Da qualche parte, tempo fa, avevo letto la frase “‘muri puliti, popoli muti“, espressione di per sé poetica, se non fosse che molto di quei muri appartengono spesso a palazzi del ‘500 o del ‘600, che volentieri farebbero a meno di frasi oscene, tag illeggibili e pensieri sgrammaticati.

Ora, la “street art” con i suoi stencil o poster incollati ai muri generalmente mi piace. Senza citare il Michael Jordan degli street artist (Bansky, ndr) spesso mi sono trovato davanti ad intuizioni geniali, a piccoli capolavori, come quelli di Rizek, un artista pugliese che si sta facendo largo in questi ultimi anni.

Madonna di Rizek
La commovente Madonna di Rizek

Vedere le mura di Venezia sporcate da graffiti spesso inutili non mi piace, ma a differenza dei miei concittadini, molti coetanei, credo che il degrado della città vada misurato attraverso altri parametri. Ma forse ne scriverò un’altra volta.

Negli anni, più che i disegni mi hanno incuriosito le frasi che “decoravano” i muri di Venezia, ma a parte pochi tristi esempi, è da moltissimo tempo che una scritta degna di nota non appare in città. Ogni tanto, tra un restauro e un altro riemergono frasi dimenticate, quasi sempre “politiche”, legate ad avvenimenti del momento, come quando anni fa, restaurando l’esterno del Fontego dei Tedesci (all’epoca sede delle Poste, e non “mall” per cinesi come è adesso) comparve la frase “Tripoli resiste“, scritta ai tempi del primo bombardamento americano della Libia a metà degli anni ’80.

W la lotta dei (?) operai vetrai

Invece ancora oggi, se pur sbiadita, si può leggere la frase “Viva la lotta dei (?) operai del vetro”, a ricordare i tempi quando ancora c’erano gli operai a Murano.  Di recente un restauro invece ha fatto sparire le frasi contro Sharon (non la Stone) piazzate ad effetto ad un ponte di distanza dal ghetto ebraico.

No, non si tratta della Stone

Resta un mistero la scritta, ora scomparsa, “Pinocchio Recion” che ornava il lato esterno di un ponte in zona Castello, così come il destinatario dell’altra scritta su quello stesso ponte: “vecchia di spade” con tanto di siringa stilizzata alla fine della frase.

Certe frasi invece sono chiare subito, come quella che diceva “Solamente i matti e i bambini dicono la verità , i primi li chiudiamo in manicomio, i secondi li mandiamo a scuola“, oppure quella vista apparsa su di un muro a Los Angeles, ai tempi delle sommosse di Watts: “I can’t sleep ‘cause my bed is on fire” (rubata ai Talking Heads). Queste sono frasi immediate, che si capiscono facilmente, in altri casi una spiegazione è quasi d’obbligo, e può emozionare in modo inatteso, come mi è successo una volta che ho capito la storia dietro la frase: “Abrazame hasta que vuelva Román“,  ovvero abbracciami fino a quando ritorna Roman.

Abbracciami, e basta.

«Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei, utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi» (Jorge Valdano)

Chi diavolo è Roman?

Roman, anzi, Juan Roman Riquelme è nato a pochi passi dalla Bombonera, lo stadio del Boca Juniors, il 24 giugno del 1978, proprio il giorno prima del trionfo della nazionale argentina di Menotti e Kempes ai Mondiali di calcio (primo successo della sua storia).

Come tutti gli argentini della sua generazione anche Roman cresce con il mito di Maradona, e curiosamente la sua storia di calciatore si incrocerà più volte con quella della divinità Diego Armando, a partire dalla sua prima squadra, gli Argentinos Juniors, la stessa del Pibe de Oro.

Una volta passato al Boca Juniors, suo sogno d’infanzia e scelta obbligata  (” se avessi indossato la maglia del River, mia madre non sarebbe mai venuta a vedermi giocare ” dirà in un’intervista), nel 1997 sarà la persona che subentrerà a Maradona nella sua ultima partita da giocatore vero, indossando il numero 20 (due volte 10), nel super classico contro il River Plate. Entra e ovviamente ribalta la partita, da 0-1 al 2-1 finale. Il tutto a 19 anni, sembra già un predestinato.

Juan Roman fa il Topo Gigio

In realtà dopo un anno di purgatorio Riquelme esplode nel 1998/99 quando l’allenatore Carlos Bianchi gli fa indossare la maglia numero 10 (quella di Maradona) e lo fa diventare il fulcro del suo gioco. In un paio di anni il Boca Junior vince tutto quello che c’è da vincere, campionati (di Apertura e di Clausura) la Coppa Libertadores e addirittura la finale della coppa Intercontinentale, contro i veri Galacticos, il Real Madrid stellare degli anni 2000,  sulla carta imbattibili.

A parte l’altezza (182 centimetri per Riquelme contro i 167 di Maradona) Juan Roman assomiglia fisicamente al suo idolo, ovviamente non ha il suo sinistro (e chi potrebbe averlo?) ma ha lo stesso sguardo carismatico, severo, che, unito ad un carattere taciturno e non proprio solare gli fanno guadagnare il soprannome de “El mudo” (il muto, inteso come scontroso).  Non segna come sua maestà Diego, ma è una macchina da assist, quando la palla gli finisce fra i piedi sai già che inventerà qualcosa che non si può prevedere.

L’anni dopo il Boca Juniors replica i successi, a parte la finale a Tokyo, persa col Bayern, ma Riquelme si consola venendo eletto miglior giocatore del Sud America.

Il numero 10, Roman

Il suo talento è troppo per limitarsi al Sud America, l’Europa sembra il palcoscenico più adatto per lui e, ovviamente come il suo idolo, la squadra che lo sceglie è il Barcellona. Dopo 7 anni incredibili nel Boca si trasferisce in Spagna.

Con i blaugrana però le cose non vanno benissimo, a causa soprattutto del pessimo rapporto con l’allenatore Van Gaal che arriverà a dire: “Con la palla al piede è il miglior giocatore del mondo, senza ci fa giocare in dieci”,  da qui a finire ai margini del progetto dell’allenatore olandese è un attimo.  Alla fine di un anno ben sotto le aspettative, nonostante Van Gaal venga esonerato, Riquelme decide, altro colpo di follia, di trasferirsi a Villarreal, una squadra di seconda se non terza fascia del campionato spagnolo. In questa piccola città, lontana dai palcoscenici più importanti Juan Roman si ritrova e trascina il “sottomarino giallo” (soprannome del Villarreal) a risultati mai raggiunti prima, terzo in campionato, semifinale in Champion’s dove Roman sbaglia il rigore che avrebbe permesso di andare ai supplementari.

Quel rigore sbagliato, con tanto di bacio alla palla prima di calciarlo segna la fine del sogno del Villarreal, lo stesso Riquelme si trascina per 6 mesi, ma non è più quello di prima. Non ha ancora 30 anni e si trova davanti ad un bivio: riprovare a vincere qualcosa in Europa con un team prestigioso, oppure “ritirarsi” in Argentina, e lui sceglie, come al solito, con il cuore.

Quando il 7 febbraio 2007 torna a casa, dalla sua Boca Junior, ad aspettarlo non c’è solamente la maglia numero 10, ma migliaia di Xeneizes (i genovesi, i tifosi del Boca) che lo accolgono come un profeta, come l’ultimo “diez”, l’ultimo numero dieci.

 Torna e vince, per la terza volta, la Coppa Libertadores, nei cinque anni successivi Riquelme continua a vincere, forse non abbastanza, ma è il cuore della Bomboniera, lo stadio del Boca Junior la sua più grande conquista. 

La gioia incontenible (!?) di Riquelme dopo la vittoria in Coppa Libertadores

Quando il 5 luglio 2012, il Boca Junior perde della finale di Coppa Libertadores contro il Corinthians, Juan Roman compie un gesto dei suoi e annuncia il suo addio al Boca, ma il 9 febbraio 2013 non resiste, e come ogni innamorato ritorna dalla sua ex, ritorna per un’ultima stagione con la maglia che ha amato di più.

L’ultimo gol ovviamente lo segna nel “superclasico” contro i nemici storici del River Plate, il 31 marzo 2014, una punizione capolavoro che però non salva dalla sconfitta il Boca, quasi una metafora della bellezza  (a volte) inutile del suo modo di giocare.

Quando annuncia il suo addio al Boca Junior, i tifosi capiscono che è davvero l’ultima volta, e la mano sconosciuta di un xeneize  scrive sul muro vicino allo stadio la meravigliosa frase “abrazame hasta que vuelva roman”, un grido d’amore, una richiesta di stringersi assieme, di abbracciarsi davanti a questa perdita, sperando nell’utopia dell’ennesimo ritorno.

Ora che sapete chi è Roman, ditemi che anche voi avete un groppo in gola. Ditemi che non avete anche voi un “Roman” del quale aspettate, invano, il ritorno.

p.s.

La storia calcistica di Riquelme non finisce qui, in un ultimo gesto di follia romantica pochi mesi dopo firma per gli Argentinos Juniors, squadra che era appena retrocessa in serie B.  Vuole chiudere la carriera laddove era iniziata. Inutile dire che quel campionato gli Argentinos lo vincono e tornano subito in serie A.

I tifosi sperano che Juan Roman firmi almeno per un altro anno, ma lui dice di no, che è troppo vecchio, o forse semplicemente non ha il cuore di giocare contro il Boca Juniors. 

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