L’effetto Doppler è un fenomeno fisico che consiste nel cambiamento apparente, rispetto al valore originario, della frequenza o della lunghezza d’onda percepita da un osservatore raggiunto da un’onda emessa da una sorgente che si trovi in movimento rispetto all’osservatore stesso.
Da Wikipedia

La mia scuola (un istituto tecnico per il turismo) prevedeva l’abbandono dello studio della matematica alla fine del secondo anno, sostituito a partire dal terzo anno con “Diritto”.
La professoressa di Matematica era una donna giovane, dichiaratamente di sinistra, alla quale (unica nella scuola) potevamo dare del “tu”, almeno quando la incontravamo per strada, in aula invece per un tacito accordo restavamo bloccati sul più classico “Lei”.
Il professore di Diritto era esattamente l’opposto, incuteva timore e rispetto, autoritario ma al tempo stesso autorevole. Dopo i primi giorni durante i quali la paura regnava in classe ad ogni sua lezione iniziammo ad amarlo, così come si ama uno zio burbero e severo, ma che alla fine dice sempre cose giuste. Lo rispettavamo almeno quanto lui rispettava noi.
Pur abitando ad un paio di ponti di distanza da casa mia (sì, a New York si misura la distanza in “blocks”, qui a Venezia in ponti, ndr) non lo incrociavo mai. La sua vita privata era un mistero impenetrabile. Quando parlai di lui a casa, mia madre lo riconobbe dalla mia descrizione, infatti il professor Piero Rossi aveva una caratteristica che lo rendeva facilmente riconoscibile: il braccio destro era totalmente inutilizzabile, penzolava come una lunga coda dalla sua spalla, anche se quasi sempre la mano era infilata nella tasca dei pantaloni o nel suo iconico loden verde (esistono anche loden di altri colori, ma il vero “loden” non può che essere verde).
Sul motivo di questa sua menomazione fioccavano leggende improbabili, quella più accreditata parlava di un incidente autostradale avvenuto molti anni prima. Ovviamente il professor Rossi era destrorso (anche politicamente, seppur un giorno ci disse di non votare più da anni) e dunque dopo quell’incidente aveva dovuto imparare a scrivere con la mano sinistra, non che gli venisse così bene, ma nessuno in classe avrebbe avuto il coraggio di ridire sulla sua calligrafia.
Il professor Rossi era un uomo alto, con occhi piccoli ma pungenti, un naso lungo che puntava senza troppa modestia direttamente a raggiungere il lungo mento, e aveva un udito straordinario, che per noi seduti in ultima fila fu fonte di alcune figure meschine, che, essendo cadute in prescrizione, non credo sia il caso di rivangare in questo contesto.
Come dicevo, della vita privata del professore non sapevamo nulla. Credo fosse sposato, si diceva avesse un figlio diversamente abile, ma non riuscimmo mai ad avere una notizia reale. Quello che sapevamo tutti è che era stato un giocatore della Reyer, la squadra di basket di Venezia ora scomparsa (ok, va bene, non è scomparsa, adesso si è trasferita a Mestre, ma per un veneziano tutto quello che succede oltre il ponte della Libertà, quello che unisce l’Europa a Venezia, non è cosa che lo riguarda).
Mia madre, visto che l’età era simile, si ricordò che un suo cugino, tale Luigi Borsoi, era stato probabilmente suo compagno di squadra. Il cugino aveva anche giocato in nazionale ma a soli 27 anni morì a causa delle complicazioni dovute all’influenza asiatica che imperversò in Italia a fine del 1957.
Un giorno presi coraggio e, a lezione finita, gli dissi che mia madre era cugina di un suo probabile compagno di squadra. Quando sentì il suo nome si tolse gli occhiali e, come faceva spesso, mise una delle stanghette fra le labbra, i suoi occhi per un attimo persero la loro solita fermezza e disse che certamente si ricordava di quel ragazzo poco più grande di lui. Aggiunse poi che quella squadra composta di ragazzi di talento (fra tutto Gigi Marsico, pura leggenda del basket veneziano, ma anche Nantas Salvataggio, diventato poi un noto scrittore e giornalista) non era stata benedetta dalla fortuna, e che oltre allo sfortunato cugino di mia madre un altro loro compagno (non mi disse il nome) finì suicida sotto un treno dopo aver perso un capitale al casinò di Sanremo. Ovviamente non accennò al suo incidente, ma era chiaro che la dea bendata non aveva baciato nemmeno lui.

Delle sue lezioni di Diritto, essendo poi una materia che non ho mai più studiato, mi ricordo praticamente nulla, ma ho ancora in mente un paio di suoi insegnamenti. Il primo capitò durante una delle nevicate più clamorose dello scorso secolo, la città era coperta da almeno 40 centimetri di neve e se anche le strade erano state pulite con una certa velocità, camminare sui masegni lisci di alcune calli (soprattuto quelli di Strada Nova, arteria principale di Venezia, poco distante dalle nostre case) era un’impresa difficile, anche per chi come me indossava calzature con la suola “da montagna”. Mentre arrancavo, cercando disperatamente di non finire a terra, incrociai il professor Rossi, che con la solita mano destra nella tasca del loden d’ordinanza, camminava senza apparente difficoltà, indossando dei mocassini di cuoio (rigorosamente senza lacci, provate voi ad allacciarvi con una sola mano). Quando vide il mio sguardo stupefatto un micro sorriso si disegnò sulla sua faccia e mi disse, semplicemente: “L’importante è tenere il baricentro basso.” Perciò in caso di superficie sdrucciolevole è molto probabile che mi vediate camminare come lupo Alberto.
L’altro insegnamento che ancora porto con me ci fu servito ai margini di una lezione in classe. Con il suo solito modo burbero ci rimproverò di camminare senza alzare la testa, fermando lo sguardo sul volto delle persone che incrociavamo (in cerca di belle/i coetanee/i) mentre il vero spettacolo, la vera bellezza stava ben più sopra, nella silhouette dei palazzi veneziani, nelle finestre bizantine, nelle piccole e preziose statue che di tanto in tanto abbellivano le facciate delle case.

Da quella lezione, ogni volta che cammino per Venezia, ma anche per qualsiasi altra città, pur apprezzando “… le labbra assenti / Di tutte le belle passanti / Che non siamo riusciti a trattenere” ogni tanto alzo lo sguardo, e finisco sempre per scoprire cose nuove.
Com’è successo qualche settimana fa, mentre tornavo a casa dalla mia solita passeggiata da pensionato (non che lo sia, è una storia lunga, ve la scrivo un’altra volta) , in riva degli Schiavoni (che deve il nome alla nutrita presenza di Slavi, s’ciavi in veneziano, che c’era in quella zona, vicino alla quale si trova anche la Scuola dei Dalmati con dipinti di Giorgione, e non ha nulla a che fare con il commercio di schiavi alti, come disse una volta quel vulcanico del nostro sindaco), cercando di non guardare negli occhi una serie di terribili negozi di souvenir, ho alzato la testa e lì, baciata dai raggi del sole che attraversavano una leggera foschia, posta sul muro della casa dove morì, ho visto la targa dedicata a Christian Doppler, l’uomo che ha dato il nome all’effetto da lui scoperto, effetto doppler appunto, e che successivamente ha avuto molte applicazioni in campo medico. Ovviamente mi sono collegato “alla” internet per sapere qualcosa di più su questo fisico austriaco, ma vi avviso, niente di spettacolare.
Nato da una famiglia storicamente dedita al lavoro di scalpellino/marmista, a causa della sua salute ballerina e ad una mente portata per la matematica e soprattuto la fisica, riuscì ad evitare di scolpire il marmo per, invece, proseguire gli studi. Una volta laureato iniziò un percorso di assistente precario, pubblicando lavori di matematica.
A quanto pare però nemmeno all’inizio ‘800 si campava di pura teoria, perciò il giovane Christian, che nel frattempo tanto giovane non era più (siamo nel 1833) inizia a fare concorsi per insegnare in una delle varie scuole e politecnici dell’allora Impero Austrungarico. Intanto il tempo passa, lui fa lavoretti e pensa seriamente di emigrare in America, prepara tutti i documenti quando arriva l’offerta per un posto alla Scuola Tecnica di Praga, come insegnante di matematica elementare.
Ma questo non gli basta, prova ad ottenere la cattedra di Matematica Superiore al Politecnico di Praga, non solo perché la sua mente è sprecata per una semplice scuola tecnica, ma anche perché il buon Christian si è sposato e si è pure riprodotto. Dopo vari tentativi, nel 1841, vince il concorso ma davanti si trova una mole di lavoro quotidiana enorme, che lo sfianca e che lo costringe ad un riposo forzato a partire dal 1844.
Da qui in poi le cose peggiorano, prima viene sospeso dalla stessa dirigenza della scuola per la sua eccessiva severità, poi giustamente decide di lasciare Praga per accettare un posto di professore di matematica, fisica e meccanica all’Accademia mineraria e forestale di Banska Stiancia ma poco dopo, con i moti del 1848 (qui succede un 48, ndr), è costretto a scappare, questa volta però trova lavoro senza penare troppo al Politecnico di Vienna.
Ma è proprio negli anni di Praga che ha l’intuizione che lo porta a teorizzare quello che ora conosciamo come effetto Doppler. Nel 1842 Doppler presenta al Congresso della Società Reale Boema il lavoro dal titolo Über das farbige Licht der Doppelsterne und eininger anderer Gestirne des Himmels (Sulla luce colorata delle stelle doppie e di qualche altro astro celeste), teoria perfezionata qualche anno dopo.
Non credo che Doppler si guardasse allo specchio ogni mattina indossando una canottiera attillata esclamando “Minchia, che fisico!” (Scusate, battuta da Colorado Caffè o da Bagaglino), anche perché il suo stato di salute era quello di un ottantenne, messo male. A soli 47 anni viene nominato Direttore del nuovo Istituto di Fisica dell’Università di Vienna, ma i suoi polmoni funzionano sempre di meno, respira a fatica, e allora nel 1852 si trasferisce in laguna (bella scelta, città dal clima asciutto e caldo, diamo un Nobel al suo medico di base) e poco dopo, il 17 marzo 1853, proprio nella sua casa in riva degli Schiavoni, il professor Doppler muore.
Se invece vi state chiedendo che ne è stato del mio professore, il prof. Piero Rossi, al solito vi devo deludere. Qualche anno fa, Carlo, il mio amico ed ex compagno di classe che stava girando un documentario sulla Misericordia, intesa come la più bella palestra del mondo, mi incaricò di rintracciare il nostro ex professore poiché la sua intervista sarebbe stata la chiusura del cerchio perfetta.
Riuscii ad avere sue notizie, purtroppo era ricoverato in un ospizio con una demenza senile in stato avanzato. Fu un colpo basso, sia per me che per Carlo. Entrambi speravamo ci avrebbe svelato come tenere il baricentro basso, non solo per camminare sulla neve con dei mocassini, ma anche per camminare in tutte quelle situazioni scivolose che ci capitano davanti.
ognuno di noi ha avuto un prof. Rossi, anche se magari non si chiamava così…
per cui leggere questi tuoi ricordi è un po’ come rispolverare un vecchio diario…
e poi mi hai citato Le passanti di Faber…
p.s.: la puntata di TBBT con Sheldon che si veste da Doppler Effect (lo scrivo in inglese solo perché mi ostino a guardarle in lingua originale, che rendono ancora di più) è tra le più belle delle prime stagioni…
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Grazie! Ognuno di noi ha (per fortuna) un professor Rossi fra i suoi ricordi, è vero. Faber è sempre in agguato, basta grattare appena sotto la superficie per trovarlo ovunque 😊 TBBT va vista in originale, vuoi mettere Raj doppiato!?
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Credo di non essere neanche arrivato a sentire Raj doppiato. Ascoltai la prima puntata, dove se non erro Raj e Howard non ci sono, in inglese e doppiata. E dato che non c’era storia non ne ho più vista una in italiano…
Ciao!
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