When you don’t give me love (You gave me pale shelter)
You don’t give me love (you give me cold hands)
And I can’t operate on this failure
When all I want to be is
Completely in command
Pale Shelter – Tears for Fear
(una canzone a scelta dei Tears for fear va benissimo per la lettura)

Quando June arrivò a casa mia aveva 24 anni anni, era bionda con gli occhi azzurri, insomma la classica bellezza californiana. Io avevo 10 anni di meno ed improvvisamente divenni il ragazzo più invidiato della mia scuola.
Per ospitarla i miei mi avevano sfrattato dalla mia cameretta, la cosa non mi piacque affatto, salvo dimenticarmene ogni mattina, quando June e i suoi occhi blu facevano colazione con me.
Il migliore amico di mio padre (che io chiamavo zio) era emigrato negli USA negli anni ’60, da buon emigrante aveva fatto fortuna e verso la fine degli anni ’70 aveva aperto un ristorante a Brentwood, Los Angeles, che nel giro di pochi anni era diventato uno dei più noti della zona.
Il locale era frequentato da attori di Hollywood, cantanti, produttori televisivi, avvocati e businessman. La “tempesta perfetta” per mio zio che fiutava affari come uno squalo sentiva il sangue nell’oceano.
Mio zio era l’uomo più ricco che conoscessi. Era riuscito addirittura ad essere il tedoforo alle olimpiadi di Los Angeles 1984, non che fosse un atleta ma in quella edizione bastavano 10.000 dollari per percorrere un chilometro con la torcia olimpica. Mio zio per non sbagliarsi ne corse due, ma questa è un’altra storia.
Erano gli anni ’80, quelli dell’edonismo reaganiano, e mio zio in quel mondo si sentiva a suo agio come Michael Jordan con un pallone da basket in mano, e con i soldi si poteva fare tutto, non solamente correre due chilometri portando la torcia olimpica.
Macchine sportive, cocaina, feste con modelle, ed è qui, alla voce “modelle”, che entra in scena la bionda californiana June, che a questo punto della storia aveva una “relazione” molto intensa con mio zio e con la cocaina.
Ad essere precisi meno intensa con lo zio, il quale pensò bene di mandarcela a casa, a Venezia, per sei mesi.
Ci disse che la ragazza aveva bisogno di cambiare aria, ma non accennò minimamente alla sua passione per la cocaina. Pensava, a ragione, che non ci sarebbe stato un posto più lontano dalla droga della casa di una famiglia normale di Venezia.
Come promesso, passati i sei mesi, lo zio venne a riprendersela. Quei sei mesi June li aveva passati studiando l’italiano (poco), mangiando vasetti di peanuts butter fatti in casa (tanti) e flirtando con bellocci della zona (in realtà soprattutto con uno).
Tornata in California andò in silenzio radio che interruppe solamente una volta, un paio di anni dopo, quando ci mandò una lettera per esprimere il suo dolore per la scomparsa di nostra madre.
Va bene, ma i Tears for fear cosa c’entrano con le amichette di un italo-americano milionario?
Nei pochi anni di carriera da modella June era comparsa in qualche rivista di moda e in qualche pubblicità minore. Poi arrivò uno di quei ruoli game changer (spoiler alert: non fu il suo caso), quando i Tears for fear la scelsero come protagonista del video “Pale shelter”, il primo singolo estratto dall’album d’esordio del duo inglese.
Vestita con il classico costume intero rosso (che qualche anno dopo diventerà immortale indossato da Pamela Anderson in Baywatch), June si tuffava in una piscina, raggiunta poco dopo da un coccodrillo, che sembrava ad un passo dal mangiarsela.
Quando June mi raccontò di questa sua interpretazione informai immediatamente tutti i miei amici, che da quel giorno passarono i pomeriggi davanti alla TV, come cacciatori di UFO, nella speranza che il video apparisse in una delle tante trasmissioni per teenager che spopolavano negli anni ’80.
Raccontata adesso, quando basta uno smartphone per vedere qualsiasi video a qualsiasi ora in qualsiasi posto, sembra una storia assurda, ma vi assicuro che in quegli anni non c’era alternativa all’attesa passiva.
Il video, come spesso capitava negli anni ’80, ha poco a che fare con il testo della canzone. A parte la bionda in costume intero rosso, che poi compare vestita, sempre di rosso, verso la fine, mentre abbraccia il fidanzato, ci sono altre immagini che colpiscono.
Un’enorme bruciatura di ferro da stiro sulla pista di un aeroporto (!?), una partita di calcio tristissima, una chitarra che vola e una specie di pioggia di aeroplanini di carta, pure questa inspiegabile.

Sul tutto dominano le capigliature improbabili, anche per gli anni ’80, dei due Tears for fear, cioè Ronald Orzabal e Curt Smith.
I due ragazzi avevano più o meno l’età di June. Entrambi provenienti da Bath, nel Regno Unito, Orzabal è figlio di un basco mentre Smith è inglese al 100%.
I due si conoscono alle scuole superiori, diventano subito amici essendo entrambi giovani sensibili e problematici.
Quell’inquietudine adolescenziale se la ritrovano anche a 21 anni, e si capisce dai titoli angoscianti delle canzoni del loro album d’esordio.
Anche se sarebbe bastato il nome scelto per la band (“lacrime di paura”) a far capire che i ragazzi non erano proprio una esplosione di leggerezza.
Roland e Curt cercano la soluzione alle loro ansie nella musica dei Beatles (e si sente), e nella psicoanalisi, in particolare le teorie di Arthur Janov, al punto che, secondo quanto dichiarato da Smith, l’idea iniziale era quella di guadagnare con la musica abbastanza denaro per permettersi le sedute, allora costose e disponibili solamente in posti tipo New York o Los Angeles.
Nel 1983 esce il loro primo album, “The Hurting” (il dolore), dove c’è “Pale Shelter”, la canzone del video con June, ma anche la loro canzone capolavoro, “Mad World”, che da sola varrebbe una pagina su Wikipedia (anzi, mi sa che c’è già).
Insomma, un esordio con il botto, fatto di un sound molto di moda al tempo (l’uso dei sintetizzatori a sostituire molti strumenti), con dei testi che riportavano le paure di qualsiasi young adult del mondo e delle melodie che ricordano da vicino quelle dei Beatles.
Nel 1985 esce l’atteso secondo album, “Songs from the Big Chair” (intesa come il lettino dello psiconalista), che porta il livello della loro popolarità alle stelle, grazie a singoli che invadono le radio e le TV musicali del tempo, come “Shout” e “Everybody wants to rule the world”.
Per il terzo album, “The seeds of love”, l’ultimo vero lavoro del duo, bisognerà aspettare quasi 4 anni. Un’attesa lunghissima, dovuta soprattutto alla pignoleria di Orzabal e della sua ricerca del suono perfetto, troppo per Smith che appunto dopo l’album lascia tutto (salvo tornare molti anni dopo). Non prima però di regalarci l’ultimo loro capolavoro “Sowing the seeds of love”, un omaggio, neanche troppo mascherato, ai loro amati Beatles.
Negli anni ’90 Orzabal continua a portare avanti il nome del gruppo da solo, con risultati alterni, e i Tears for fear scivolano lentamente nell’oblio.

Poi nel 2001 succede una cosa imprevista. Una casa indipendente produce “Donnie Darko”, un piccolo film, strano e incomprensibile (almeno per gli over 30), scritto e diretto da tale Richard Kelly, al tempo nemmeno venticinquenne.
Più che un successo di botteghino, “Donnie Darko” diventa un film culto per tutti gli adolescenti di quegli anni, che si immedesimano nelle paure e nelle sofferenze dei protagonisti.
Nel film compare, scelta perfetta, “Mad World”, in una meravigliosa cover piano e voce di Gary Jules.
Pochi ipnotici minuti nei quali si racchiude l’essenza dello spaesamento provocato dal passaggio dal mondo dell’adolescenza a quella dell’età adulta.
“And I find it kind of funny/ I find it kind of sad/ the dreams in which I’m dying are the best I ever had”.
Orzabal aveva scritto questa canzone da ragazzo, osservando, con gli occhi da adolescente inquieto, le strade di Bath dalla finestra del suo appartamentino sovrastante una pizzeria.
Un mondo normale e folle al tempo stesso, una canzone che non è invecchiata perché quel disagio si ripresenta puntualmente ad ogni adolescente (e a volte non scompare nell’età adulta).
A questo punto credo vi chiederete che fine abbia fatto June, purtroppo non posso aiutarvi.
Dopo quella lettera ci fu il silenzio, però la rividi 10 anni dopo a Los Angeles. Ancora uno schianto, era diventata salutista e vegetariana, si faceva accompagnare sempre da uomini ricchi, aveva però smesso sia con la cocaina che con le velleità artistiche. Almeno così mi disse.
Ma chissenefrega, per me June sarà sempre la bionda in costume intero rosso che nuota in una piscina cercando di scappare alle fauci di un coccodrillo.
Come ti capisco a qel tempo gli USA, con i loro poregi e difetti, erano ancora al centro del mondo.
"Mi piace""Mi piace"