I’ve been looking so long at these pictures of you
That I almost believe that they’re real
I’ve been living so long with my pictures of you
That I almost believe that the pictures
Are all I can feel
Pictures of you – The Cure
Circa un anno fa è uscito il mio primo post interamente fotografico (potete trovarlo qui). In questi mesi non è cambiato quasi nulla, oppure è cambiato tutto, vedete voi.
Certe persone se ne sono andate per sempre, altre le sto aspettando ancora, nel frattempo sono diventato maestro del piccolo cabotaggio, un modo di navigare che sembra derivi dal noto navigatore veneziano Giovanni Caboto (aka John Cabot), nato a metà del 1400 proprio qui, a Venezia, a pochi metri da casa mia.
Vi risparmio la gugolata, la Treccani descrive il piccolo cabotaggio come un insieme di “operazioni di scarso rilievo o marginali, per eccessiva prudenza, per mancanza di decisione, o anche per calcolo.”
E quando il tuo ipotetico futuro ti piace ancor meno del tuo presente, la cosa migliore da fare è rifugiarsi nel passato, giusto il tempo necessario per capire che quel passato è stato, a sua volta prima futuro e poi presente, insomma non c’è alcun motivo per preoccuparsi.
Come feci con il mio primo post fotografico anche per questo mi ispiro al regista tedesco Wim Wenders e al suo libro “Una volta”, nel quale presentava circa 350 fotografie introducendole sempre con le due parole “una volta”.
Qui troverete quindici fotografie, tutte (tranne una) scattate da me con la mia Yashica fx-3, quasi sempre su pellicola in bianco e nero, alcune (pochissime) sono state editate da originali a colori, ma poco cambia.
Quindici fotografie per quindici ricordi, premetto che non ho mai fotografato alcun impiattamento spettacolare, non lo faccio ora che con il mio iPhone lo potrei fare gratuitamente, figuratevi se lo facevo quando dovevo comperare le pellicole.
1. Firenze, terrazza di Piazzale Michelangelo
Una volta andai a Firenze con il mio amico Alessandro, lui doveva preparare un esame per Architettura, io come al solito non stavo combinando un cazzo. Eravamo ospiti di un ex commilitone di mio padre, tale Cellini, che abitava dalle parti di Coverciano. Dopo quasi 40 anni si erano ritrovati e, ancora nell’onda emotiva dell’incontro, quell’uomo venuto dal passato ci aveva accolti di buon cuore nella sua casa. Furono giorni strani, ospiti in una casa sconosciuta, serate molto “toscane”, come quella nella quale cenammo a base di salumi e pane toscano (senza sale). In una delle nostre giornate a Firenze, a caccia dei monumenti che il mio amico doveva studiare, ci ritrovammo su di una piazzale sopraelevato con vista sulla città, vidi un signore anziano con shorts ascellari e cane al guinzaglio, sembrava perfettamente a suo agio mentre osservava la sua magnifica città che si mostrava in tutto il suo splendore.
2. Ciudad de Juarez, Mexico
Una volta mi trovavo a El Paso, una città nel Texas al confine con il Messico. Stavo attraversando gli Stati Uniti usando i bus della Greyhound, più o meno il corrispettivo americano dell’Interrail. Avevo lasciato Los Angeles da una settimana, dopo circa 3 mesi passati a lavorare nella cucina di un ristorante. Con me avevo poco più di 1000 dollari, una cifra che avevo ritenuto sufficiente per un viaggio di 5 settimane. Per risparmiare spesso viaggiavo di notte, dormendo direttamente sugli scomodi sedili degli autobus. Ad El Paso ero arrivato al mattino, dopo 9 ore di bus e per prima cosa cercai un hotel. La mia scelta cadde su di una specie di pensione super economica, occupata da anziani che sostavano nella hall fumando e leggendo i giornali per le scommesse ippiche. Il giorno dopo, alla mattina, sfruttando il mio passaporto italiano decisi di andare in Messico. Dopo una camminata di 20 minuti mi ritrovai nel centro di Ciudad de Juarez, infestato di turisti e venditori ambulanti. Scorsi il nome della piazza antistante il duomo, e lo trovai particolarmente azzeccato per quella città. Feci la foto mettendo a fuoco il cartello e me ne tornai in Texas, in tempo per prendere l’autobus della notte per Sant’Antonio.

3. Freiburg, casa dello studente
Una volta mi trovavo a Francoforte, al tempo ovviamente non lo sapevo, ma quello sarebbe stato l’ultimo autunno con le due Germanie divise. Appena finito il servizio militare avevo deciso di sfruttare la ritrovata libertà per fare un piccolo viaggio. Avevo scelto quella città come prima tappa perché ci abitava una mia amica; dopo un paio di giorni andai a Friburgo usando il “Mitfahrzentrale” la versione pre-internet di Bla Bla Car. Qui sarei stato ospite (simil squatter) di un paio di ragazze americane nel dormitorio della loro università. Le avevo conosciute attraverso una mia amica a Venezia qualche settimana prima, e nei quattro giorni nei quali mi fermai nella città universitaria tedesca cambiai letto quattro volte, cose che capitano a vent’anni. Fra gli ospiti abusivi del dormitorio c’era anche un ragazzo israeliano di 19 anni, tale Eytan Shapiro. Renitente alla leva era stato a Londra per qualche mese, qui sei era innamorato di Rachel, una ragazza tedesca che finalmente aveva raggiunto a Friburgo. Eytan non aveva alcuna intenzione di ritornare in Israele, anche perché poteva spostarsi senza grossi problemi usando il suo passaporto brasiliano, ottenuto grazie alle cittadinanza del padre, ma aveva anche quello dell’Uruguay, per merito della madre. Mi disse che sarebbe venuto in Italia per vedere il Brasile giocare ai Mondiali del 1990, previsti per l’estate successiva. Però non ne era così sicuro, perché aveva appena messo incinta Rachel. Quando il Brasile perse con l’Argentina, a fine partita la regia della RAI inquadrò gli spalti, per un paio di secondi vidi un ragazzo dai capelli rossi con gli occhi azzurri, mentre in lacrime si reggeva sulla bandiera brasiliana, ancora oggi sono convinto che si trattasse di Eytan. La casa dello studente era un edificio quadrato e grigio, la facciata formava una scacchiera che trovai perfetta da fotografare.
4. Los Angeles, cimitero dei veterani
Una volta ero a Los Angeles, passavo molti dei miei pomeriggi liberi a girare in bicicletta alla ricerca di posti strani da fotografare. Mi ritrovai nel mezzo di un cimitero di veterani, onestamente non mi ricordo di quale guerra, fa poca differenza. Le lapidi bianche seguivano la morbide curve delle basse colline, perdendosi a vista d’occhio, sembravano una marea ordinata di gigantesche tessere di domino. Mi posizionai davanti alla bandiera a stelle e strisce che la lieve brezza di quel tardo pomeriggio muoveva appena. Mentre fotografavo quelle centinaia di pietre bianche pensai che sotto ognuna c’erano i resti di una persona, probabilmente della mia stessa età, per un attimo mi chiesi che fine avessero fatto tutti i loro sogni. Poi ripresi la bicicletta e tornai a casa.
5. Lisbona
Una volta mi trovavo in Lisbona, con mia moglie avevamo deciso di passare in Portogallo la nostra luna di miele. Il piano prevedeva restare nella capitale le prime tre notti, per poi prendere una macchina a noleggio e perdersi un po’, usando quelle che lo scrittore americano William Least Heat-Moon aveva chiamato “Blue Lines”, ovvero le strade provinciali. Lisbona però era un soggetto irresistibile per le mie ambizioni di fotografo, tutto finiva sulla mia pellicola, dalle insegne dei negozi alle facciate dei palazzi del centro, dagli avventori dei ristoranti ai semplici passanti. Mentre eravamo a bordo di uno dei suoi meravigliosi tram, scorsi due ragazzi, appena adolescenti, che si scambiavano dei baci. Lui era di colore, con dei dreadlocks non molto lunghi, mentre lei, cromaticamente, sembrava la classica ragazzina portoghese. Si erano appoggiati sull’unico pezzo di muro lasciato libero dalle scritte “rivoluzionarie”, oltre ai due piccoli amanti mi colpì la solitudine (tutta immaginata da me) del terzo ragazzo che passava loro davanti. Erano veramente giovani, ma in qualche modo sembrava un amore adulto.
6. Vienna, fermata metropolitana “Ul. westerplatte”
Una volta ero a Vienna. Con due miei amici stavo andando in Polonia per festeggiare il capodanno. Il muro di Berlino era caduto l’anno prima e tutto l’est Europa aveva un fascino esotico quasi irresistibile (senza contare che si trattava sempre di una destinazione molto economica). Il viaggio, esclusivamente in treno, prevedeva una sosta di qualche ora a Vienna, che usammo per visitare la città. Inutile dire che in poche ore non vedemmo nulla, ma quel pomeriggio resta il mio periodo più lungo passato in Austria. Mentre andavamo a spasso senza meta vidi questo ragazzo appoggiato su di un paletto, dal punto in cui mi trovavo la sua figura entrava perfettamente nello spazio dell’inferriata posta sopra l’entrata della fermata metropolitana “Ul. westerplatte“. Fu un scatto veloce ma riuscì perfettamente.
7. Prato, chiesa di Santa Maria delle carceri
Una volta, sempre durante il viaggio-studio a Firenze con il mio amico Alessandro, andai a Prato, perché tra le opere previste nel suo esame ce n’erano un paio anche qui. Visitammo il Castello dell’Imperatore, una struttura della quale sono rimaste solamente le mura esterne, e che in quei giorni ospitava un cinema all’aperto. Appena fuori del castello si trovava la chiesa di Santa Maria delle Carceri, capolavoro di fine ‘400, opera dell’architetto preferito da Lorenzo de’ Medici, Giuliano da Sangallo. Mentre, “circumnavigando” le mura del castello, ci stavamo dirigendo verso la chiesa, ci imbattemmo in uno stormo appiedato di piccioni che circondava, muovendosi freneticamente, un signore con sandalo che distribuiva pezzi di pane vecchio. Le linee orizzontali delle pietre sulle mura del castello e quelle del selciato a terra, che in qualche modo proseguivano in orizzontale sul lato della chiesa, unite al caos provocato dai piccioni, davano a quella scena una dinamicità unica che bloccai in questa foto.
8. Civitanova Marche, spiaggia
Una volta ero a Civitanova Marche. Stavo passando parte delle vacanze estive con la mia ragazza dell’epoca. In realtà lavoravamo tutti e due, e dunque il tempo libero era limitato alla sera e ai weekend. Spesso passavamo le domeniche in spiaggia, che per la cronaca mi ricordava molto quella del Lido di Venezia, e non lo dico in senso positivo. Però l’importante era stare assieme, e dunque che la sabbia non fosse bianca e che il mare fosse poco cristallino, non mi turbava affatto. Al solito portavo sempre con me la macchina fotografica, un pomeriggio, mentre stavo fotografando la mia ragazza vidi una coppia poco distante intenta a parlare. La forma dell’uomo mi ricordò la statua della Sirenetta a Copenhagen (mai vista dal vivo, ça va sans dire), così misi a fuoco i due soggetti sullo sfondo “sacrificando” la mia ragazza.
9. Aeroporto di Frankfurt
Una volta andai in Africa per partecipare ad un “Educational”, ovvero un tour organizzato esclusivamente per agenti di viaggio per poter testare il “materiale” da vendere. In quel caso si trattava di “Acacia”, un tour operator specializzato in viaggi-avventura in Africa. L’itinerario prevedeva la visita di tre stati a sud dell’equatore: Zimbabwe, Zambia e Botswana. Pochi giorni prima di partire mi accorsi che l’otturatore della mia Yashica si era rotto in modo irreparabile. Avendo delle buone ottiche cercai di acquistarne una nuova, ma riuscii a trovare solamente un clone cinese. Partii dubbioso, ed infatti dopo nemmeno una settimana (e forse cinque rullini) il caricatore si ruppe e non riuscii a fotografare più nulla, quella che vedete è la prima fotografia del viaggio, scattata nell’aeroporto di Francoforte mentre mi facevo trasportare dal tapis roulant verso il volo per lo Zimbabwe. Le linee orizzontali create dalle luci al neon spingevano verso un punto indefinito, come a risucchiare lo sguardo.
10. Varsavia
Una volta mi trovavo a Varsavia, c’ero arrivato una fredda mattina di fine dicembre assieme a due miei amici. Il muro di Berlino era crollato l’anno precedente e tutto l’est Europa esercitava un fascino irresistibile. Ci accolse una nebbia satura dei fumi di scarico di vecchie utilitarie sovietiche, e una neve altrettanto grigia che si stava sciogliendo con sorprendente felicità. Ovunque puntassi la mia macchina trovavo immagini da fotografare. Mentre camminavamo senza alcuna destinazione, ci imbattemmo in una mini orchestra a fiati, composta da quello che sembrava essere un padre con i suoi due giovani figli, che suonava un brano di musica classica (almeno così ricordo, ma dubito potesse trattarsi d’altro). Il trio era diretto da un signore vecchissimo. Nella foga, incurante del freddo, il direttore si era anche tolto il guanto destro e muoveva le braccia con vigore, forse anche per scaldarsi, visto che il cappotto che indossava era fin troppo leggero per l’inverno polacco. Mi immaginai si trattasse di un vero direttore d’orchestra, di qualche filarmonica caduta in disgrazia con l’avvento dell’economia capitalistica, ma probabilmente era un semplice appassionato.
11. Da qualche parte vicino ad Avignone, mercato
Una volta mi trovavo ad Avignone, nel sud della Francia. Avevo provato a raggiungerla in autostop, partendo da Friburgo, in quella che all’epoca era Germania dell’Ovest. Il primo tizio che mi tirò su lo fece per pietà, spiegandomi che in quel punto della strada nessuno sarebbe passato a meno di 120 km orari, e si limitò a portarmi fino al benzinaio più vicino. Aspettai quasi un’ora immerso nella nebbia più fredda che avessi mai visto (e ho passato molti inverni a Venezia), vestito con un cappotto e un cappello di feltro degno del miglior dissidente sovietico, prima che due surfisti tedeschi, diretti in Portogallo, mi offrissero un passaggio. Mi lasciarono alla stazione ferroviaria di Lione, dove il Kerouac che era in me si arrese alla borghesissima idea di prendere un treno fino ad Avignone. Prima di salire a bordo feci in tempo a chiamare questa mia amica americana, che si trovava in Provenza per un corso di cucina, una di quelle cose che fanno gli americani quando vanno all’estero e non vogliono sembrare i tipici turisti americani. Comunque per un paio di giorni fui ospite suo, proprio a casa dell’insegnante cuoca, un’elegante signora francese sui sessant’anni, che abitava poco lontano da Avignone, in una casa che sembrava uscita da una di quelle riviste sulle residenze provenzali di campagna. Un giorno andammo al mercato del paesino vicino per acquistare gli ingredienti necessari per alcune ricette oggetto delle lezioni. Acquistammo le uova per la torta da un signore con tanto di basco, che sembrava uscito da un film degli anni ’60. Di quei giorni mi ricordo poco, anche se il modo con il quale preparo il pane ancora oggi, l’ho imparato in quella casa in Provenza.

12. Venezia, vaporetto actv
Una volta mi trovavo a Venezia, a dire il vero a Venezia ci ho vissuto tutta la mia vita, e anche quando mi sono trovato ad abitare altrove, la mia casa è sempre rimasta in laguna. Se pur abituato a questa città ho sempre guardato alle cose che mi circondavano con un occhio da “turista”, cioè con quel tipo di curiosità che ti aiuta a scoprire sempre cose nuove, e portando spesso con me la mia macchina fotografica ho finito per accumulare decine di fotografie di Venezia e dei suoi abitanti. Una volta ero a bordo di un vaporetto (cioè la versione acquea del trasporto pubblico, al tempo gestita dall’ACTV), precisamente la linea 1 che dal Lido arriva fino a Piazzale Roma (cioè la stazione dei bus di Venezia) attraverso il Canal Grande. Mentre cercavo di fotografare una barca a remi attraverso il finestrino del vaporetto, il bambino davanti a me si girò fissandomi con i suoi occhi enormi. Bastò un attimo, non chiesi nemmeno il permesso al padre che, probabilmente distratto dalla lettura di annunci, non si accorse di nulla. Il fatto che il suo viso non sia perfettamente a fuoco rende questa fotografia ancora più vera. Inutile dire che non incontrai più quel bambino.

13. Macerata, giardini pubblici
Una volta mi trovavo a Macerata, ero ospite della mia ragazza del tempo. Avevo poco più di vent’anni e ogni città che non fosse Venezia mi offriva immagini sconosciute. Una domenica mattina andammo a passeggiare nei giardini pubblici, che credo sia il modo più semplice per capire lo spirito di una città italiana, soprattutto di provincia come Macerata. Le coppie anziane che si tengono per mano, eleganti nei loro abiti festivi, i ragazzi più giovani che si baciano a lungo, incuranti degli sguardi dei pensionati seduti sulle panchine, e i neo genitori che portano a spasso i loro bambini. Mentre cercavo soggetti per le mie fotografie mi accorsi di una giovane madre, che con una macchina automatica cercava l’angolo migliore per fotografare la figlia in passeggino. Si avvicinava e si allontana di continuo dalla bambina, fino a quando si piegò su di un fianco, quasi sbilanciandosi. Si assicurò con uno sguardo che ci fosse ancora qualche centimetro di panchina a sua disposizione, e in quel preciso istante scattai la fotografia che vedete qui sopra. Ho sempre trovato questa fotografia piena d’amore.

14. Los Angeles, Sunset Boulevard House di Robert Bridges.
Una volta mi trovavo a Los Angeles, al tempo non avevo un’automobile e neppure la patente (non che sia cambiato molto adesso, a parte il fatto che uso la patente come segnalibro). Di conseguenza mi spostavo con una bicicletta da corsa, non per raggiungere il mio posto di lavoro (che distava pochi metri da casa mia), ma quasi sempre per girovagare per la città cercando soggetti per le mie fotografie. Alla terza volta che sfrecciavo (in discesa) lungo il Sunset Boulevard, alzai gli occhi sulla mia destra, verso le colline, e vidi una specie di astronave. Sembrava come se un bambino, in preda ad un “art attack” incontrollato, avesse preso delle scatole di scarpe, un paio di tubi di cartone e li avesse assemblati li sopra, senza preoccuparsi dell’aspetto estetico. Il risultato era un insieme di parallelepipedi sorretti da gigantesche e massicce colonne di cemento, il tutto ricoperto di legno e alleggerito da grandi finestre, un vero azzardo (spero calcolato) in una zona sismica come quella. Quel giorno avevo con me solamente l’obiettivo da 50mm, perciò ci ritornai la settimana dopo, montando sulla mia Yashica fx-3 il teleobiettivo Tamron 70-200 (qui si parla di preistoria). Il risultato è quello che vedete. Quando ho deciso di scrivere il post, ho cercato on line tracce di questo edificio e, dopo qualche ora, ho scoperto il nome dell’architetto e della casa. Signori e signore, vi presento la “Boulevard House” (complimenti al copy) di Robert Bridges.

15. LIsbona, barbiere
Una volta mi trovavo a Lisbona. Per anni avevo sperato di andarci, quell’idea di malinconia e lentezza che arbitrariamente le avevo assegnato la rendeva molto più attraente di altre città europee, come Barcellona oppure Praga. Decidemmo di andarci per il viaggio di nozze, fu una settimana piena di stupore e poesia, pensandoci adesso il ricordo è così lontano che sembra quasi un viaggio vissuto e raccontato da altre persone. Probabilmente eravamo davvero persone differenti all’epoca, senza contare che si tratta di un viaggio avvenuto lo scorso millennio, molto tempo fa insomma. Feci moltissime fotografie, sia a Lisbona che in tutti gli altri posti che visitammo, alcune troppo difficili da vedere adesso, ancor di più da condividere su questo blog. Lisbona aveva (oppure forse ha ancora) la capacità di ospitare nella stessa via banche internazionali e vecchie mercerie gestite da donne anziane che parlano solamente il portoghese. C’era una classe straordinaria anche negli angoli più decadenti. Durante una passeggiata, guidati solamente dalla curiosità di attraversare un mondo così diverso dal nostro, finimmo davanti ad un barbiere chiuso, sembrava uno di quelli che si trovavano nei piccoli paesi di provincia in Italia, a fine anni ’70. Avevo addirittura l’impressione di sentire l’odore del sapone da barba Proraso e del borotalco attraverso la posta chiusa. I vecchi specchi avevano degli aloni sugli angoli che in qualche modo li rendevano ancora più belli. Colsi la nostra immagine riflessa e chiesi a mia moglie di fermarsi per permettermi di rendere quell’attimo eterno, almeno quello.