Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.
Catarì – Salvatore di Giacomo
Ci sono tornato dopo vent’anni, mentre con mia figlia risalivo l’Italia, dalla Puglia a Venezia, passando per Matera, Pompei (cioè Napoli appunto) e Roma. L’idea era quella di farle vedere parte di quelle meraviglie che spesso ci dimentichiamo di avere (come Matera) o che si stanno disintegrando (Pompei).
E se anche oggi ad anni di distanza ogni tanto mi parla di quel cane che ci portò fuori dal labirinto delle viuzze di Matera, o delle fontane dentro ai ruderi di Pompei, direi che la missione è stata un successo.
La zona appena fuori la stazione di Napoli è, per usare un eufemismo, vivace, a vent’anni di distanza è cambiato tutto, ma in fondo non è cambiato nulla. Adesso ci sono negozi di cianfrusaglie gestiti da cinesi o da nigeriani vicino ai soliti panifici che sfornano panzerotti e pizze di continuo, non ho visto gli “scatolettari”, come quelli che estorsero centomila lire ai due miei commilitoni (no, i due non hanno mai vinto il premio Nobel), però dopo cinque minuti un signore napoletano mi ha offerto un “aifon” nuovo di zecca, che io gentilmente ho rifiutato.
Quello che mi colpisce, anche fisicamente, è il rumore impressionante che ci circonda, frutto di decine di motorini, clacson di macchine, musica a tutto volume dei bancarellari e, per non farci mancare nulla, i martelli pneumatici degli operai che stanno rifacendo il piazzale. Arrivando da Matera il rumore sembra ancora più assordante, e anche nei miei ricordi di militare, i decibel erano nettamente più bassi. Anzi, il ricordo più nitido che ho dei miei pomeriggi passati a camminare per Napoli è il silenzio che circondava alcune zone del centro, una in particolare incontrata durante una domenica in libera uscita, quando avevo deciso di andare al centro da solo e di perdermi un po’ tra vicoli meno battuti. In fin dei conti avevo attraversato in bicicletta il downtown di Los Angeles un paio di anni prima, tanto peggio non poteva essere.
Sono gli anni del Napoli di Maradona, e quando qualcuno anche adesso sostiene che Diego Armando era una divinità non posso che confermare, non perché ho visto una puntata di “Sfide”, oppure il film di Kusturica (tra l’altro perfettamente a suo agio nel raccontare un pazzo come lui) ma perché ho visto con i miei occhi come un ragazzo della periferia di Buenos Aires fosse diventato il dio-re di un’intera città.
Tornano dallo stadio, la messa è finita, Maradona e il suo Napoli hanno vinto, e l’incantesimo silenzioso di quel santuario pagano è spezzato. Non vedrò mai più una strada di Napoli così silenziosa, ma è quello il ricordo più limpido che ho di quei tre mesi passati in uniforme. Anni fa mi è capitato di vedere il film che Turturro ha girato a Napoli, più che un film un documentario sulla musica napoletana. Nonostante i produttori abbiano cercato di spacciarlo per una specie di “Buena Vista Social Club” in salsa partenopea, il confronto non regge.
Turturro, per quanto lo si possa amare, non è certo Wim Wenders, e soprattutto al film manca la meravigliosa parabola di quei musicisti cubani, quella storia da “underdogs“, da perdenti di successo, salvati dall’oblio un attimo prima di sparire per sempre, che rende la pellicola di Wenders una favola (amara) a lieto fine. Certo, nel film di Turturro ci sono squarci di poesia straordinari, come quando i tre fratelli Esposito, produttori musicali da tre generazioni, disquisiscono proprio modo se davvero Caruso fosse stato il più grande interprete della musica napoletana, oppure quando James Senese si commuove parlando della sua infanzia di bastardo mulatto nella Napoli del dopo guerra. Il documentario alla fine però è poco più di un collage di video musicali con Napoli come filo conduttore e ritratta, questo è vero, con una grazia ed un rispetto unico.
Quando uscì “Lisbon story”, sempre di Wim Wenders, rimasi incantato, come molti altri, dalla musica dei Madredeus, e dalla voce della loro bellissima cantante Teresa Salgueiro. Quella è un’altra storia, però il gruppo portoghese mi sono tornati in mente quando ad un certo punto nel film “Passione”, un signore, accompagnato solamente dalla sua chitarra inizia a cantare un brano straordinario. Fausto Cigliano, una vecchia gloria della musica napoletana ora quasi dimenticato, canta, all’interno del complesso del Pio Monte della Misericordia, “Catari”, un brano composto a fine ottocento estratto dalla poesia “Marzo” di Salvatore di Giacomo, nei versi l’innamorato si paragona ad un passerotto bagnato, in balia dei capricci meteorologici di Marzo, ovvero la sua amata.
Turturro riempie la musica con le inquadrature delle sette opere della Misericordia, dipinte dal Caravaggio, mentre Cigliano tocca con grazia le corde della chitarra, nemmeno suonasse con il piede sinistro di Maradona, e canta con voce fuori moda “N’auciello freddigliuso/aspetta ch’esce o sole,/ncopp’ ‘o tterreno nfuso/suspirano ‘e viole…”.
Certo, parole non all’altezza dell’immortale strofa “chiamami ‘n coppa o cellulare” del neo melodico anni ’90 Franco Moreno, ma va bene così.
Per capire i capricci di Marzo, temo non le servirà il mio aiuto.