Kim Vilfort

Sarà che non rimpicciolisci
anche quando ti allontani da me.

Coniugati passeggiare – Dente

Quando hai quindici, diciotto anni, pensi di sapere tutto, di capire tutto. Di solito prima dei trenta realizzi di non sapere una barocca minchia e capisci finalmente che sei diventato adulto, o almeno questo capita a quasi tutti.
Di Mario, quel signore genovese nato nel 1900 ho già scritto. Durante il mio periodo californiano ogni tanto passavo a trovarlo nella sua casetta sul Pico Boulevard, ci andavo di rado, perché lavoravo tutte le mattine, e ovviamente girare in bicicletta alla sera  per le strade di Los Angeles non era un’idea da Premio Nobel.

Inoltre non avevo neppure diciannove anni, tutta la vita davanti (e che vita, con il senno di poi), ma soprattutto nell’immediato avevo tutta L.A. de vedere, da divorare. Passare dei minuti in quella casa ferma agli anni ’50, in compagnia di un signore quasi novantenne sembrava uno spreco, figuriamoci passarci delle ore, perciò ci stavo il meno possibile. Avevo avuto la possibilità di vedere gran parte del novecento attraverso gli occhi di qualcuno che l’aveva vissuto in prima persona, e non l’avevo capito. Errori che si fanno da giovani.
Una volta Mario mi chiese se volevo pranzare con lui, rifiutai, con la scusa che avrei mangiato di lì a poco con i tipi messicani del ristorante, prima di iniziare il turno. Visto che me ne stavo andando mi diede 10 dollari di mancia e mi disse una frase terribile, che mi fu chiara molti anni dopo e che ricordo ancora: “Un giorno capirai”. Si, perchè lui poteva tranquillamente non mangiare, semplicemente era la mia compagnia che cercava, ma certe cose non si capiscono a 18 anni, bisogna avere l’età giusta per vedere e capire realmente quello che ti succede attorno.

Pochi anni dopo, nell’estate del 1992, si stavano per giocare in Svezia gli Europei di Calcio, gli ultimi con il numero ristretto di 8 squadre (più squadre, più nazioni, più partite e più diritti televisivi da spartirsi). A qualche chilometro dall’Italia invece si stava per scatenare l’inferno, l’utopia di una Jugoslavia dove i diversi popoli di quella regione, con diverse religioni e accenti diversi, vivevano uno a fianco dell’altro si stava sbriciolando, a causa dell’ingordigia di piccoli dittatori che con la scusa di combattere una battaglia per salvare la propria tribù mandavano una generazione al massacro, mentre le loro tasche si riempivano.

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Gagliardetto solitario, e originale, della nazionale Jugoslava di calcio.

L’Europa politica stava a guardare, forse memore del fatto che dalle scintille balcaniche spesso scoppiano incendi (vedi la prima guerra mondiale), ma anche timorosa di infastidire un USSR (al tempo ribattezzata CSI) ferita ma sempre pericolosa. L’Europa del calcio  invece prese una decisione:  la nazionale Jugoslava, composta da persone virtualmente (e nemmeno troppo) in guerra tra loro, non avrebbe potuto serenamente giocare il campionato di quell’estate. Così, dieci giorni prima dell’inizio degli Europei, escluse la compagine slava dal torneo e si affrettò a chiamare in sua vece la nazionale che era arrivata seconda nel suo girone, cioè la Danimarca.
Il CT danese, Richard Møller Nielsen, si affannò non poco nel recuperare i giocatori sparpagliati nelle varie destinazioni turistiche estive. La punta di diamante di quella squadra era Michael Laudrup, che all’epoca militava nelle file del Barcellona, probabilmente il più grande talento calcistico danese di sempre. Michael però rifiutò la chiamata,  di lasciare la spiaggia non gli andava proprio. Per quanto il vero motivo andava ricercato nei pessimi rapporti che c’erano tra lui e il Commissario Tecnico, che comunque riuscì a tirare fuori 22 convocati, tra i quali il fratello minore di Laudrup, Brian, tale Herik Larsen, che quell’anno aveva scaldato la panchina del Pisa in serie B, Kim Vilfort, che accetta per senso di responsabilità, perché se ne sarebbe stato a casa volentieri anche lui, vicino alla figlia malata. Con lui mezza squadra del Brøndy, e infine ovviamente il più forte portiere di quegli anni, Peter Schmeichel, estremo difensore del Manchester United.

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Il portiere della Danimarca 1992, Peter Schmeichel con due compagni anonimi.

Nella partita d’esordio la Danimarca ottiene un misero 0 a 0 contro l’Inghilterra, nella seconda partita va addirittura peggio, perdendo 1 a 0 contro i padroni di casa, gli odiati cugini Svedesi (sentimento reciproco, visto che l’IKEA è accusata da anni di chiamare con i nomi di città danesi gli oggetti più umili che produce, come la tavoletta del cesso, i pavimenti più economici e cose del genere). Michael Laudrup, sotto l’ombrellone in qualche spiaggia alle Baleari capisce di aver fatto la scelta giusta.

Nel frattempo la salute di Lena, la figlia di Vilfort  ammalata di leucemia, peggiora. Il centrocampista corre a casa, l’ultima, decisiva partita con la Francia di Cantona e Papin, la Danimarca dovrà giocarla senza di lui. Il 17 Giugno 1992 succede l’imprevedibile, la piccola Danimarca vince 2 a 1, ad aprire le marcature il panchinaro del Pisa Larsen.

La figlia di Vilfort è ancora in ospedale, sembra avere i giorni contati, ma per la semifinale Vilfort ritorna, anche perché l’UEFA fa sapere che in ogni caso, per regolamento, il calciatore non potrà essere rimpiazzato.

Alla fine si tratta di aspettare un’altra partita, infatti lgli avversari di turno sono i campioni uscenti dell’Olanda, contro i quali la Danimarca non ha speranze di successo. E invece no, i tempi supplementari finiscono 2 a 2, questa volta Larsen di goal ne fa addirittura due.
La partita si risolve ai rigori. In porta i danesi hanno Schmeichel, che para il rigore di Van Basten, mentre i suoi compagni, incluso Vilfort, li segnano tutti e cinque di fila.
La Danimarca è inaspettatamente in finale, in 3 settimane i suoi giocatori sono passati da prendere il sole in spiaggia a sognare di diventare campioni d’Europa.

Il 26 giugno 1992 allo stadio di Göteborg, la Danimarca affronta la ben più blasonata Germania, che due anni prima aveva vinto i Mondiali in Italia, i danesi però sono a soli 90 minuti dal sogno, e oramai ci credono.

Al minuto 18  John Jensen improvvisamente porta in vantaggio la Danimarca, la Germania arranca tutto il primo tempo, attacca a testa bassa ma non segna, nel secondo tempo il copione si ripete, con i tedeschi ad attaccare senza ottenere nulla, Peter Schmeichel para anche le ombre dei calciatori, poi a 12 minuti dalla fine, come nelle migliori delle favole, Kim Vilfort recupera una palla nella trequarti tedesca, corre in contropiede e segna il goal del definitivo 2 a 0, la Danimarca si trova incredibilmente sul tetto d’Europa.

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Kim Vilfort in una fotografia di del 2009.

Poche settimane più tardi Lena s’arrende alla malattia,  dopo la sua più grande gioia sportiva, Vilfort affronta l’incubo di ogni genitore, il dolore più grande di un padre, vedere la propria figlia morire.

Anni dopo, quando diventai padre anche io, quella vicenda mi ritornò in mente, e fu allora che la capii per davvero, che realizzai quanta forza avesse avuto quel ragazzo di 30 anni, costretto a correre dietro ad un pallone mentre la figlia veniva consumata da una malattia incurabile.

Aveva ragione Mario, dall’alto dei suoi 87 anni, quando mi disse “un giorno capirai”, perché invecchiando il modo di vedere le cose inevitabilmente cambia, a volte si tratta di sfumature, ma le nostre esperienze ci fanno vedere le stesse cose in modo diverso. Come se costruissero dei piedistalli per permetterci di vedere il nostro passato, ma anche il nostro futuro, sotto angolature nuove.

Con l’eccezione, rara, delle persone che si ha veramente amato, 5 o 6 in tutto forse, quelle, ai tuoi occhi, non cambiano, non importa quanto lontani siano, certi ricordi non rimpiccioliscono mai.

Per il resto, quando continueremo a vedere il mondo sempre nello stesso modo per troppo tempo,  vorrà dire che la vita non ha più nulla da insegnarci.

E io non voglio smettere di invecchiare.

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