One in ten

I am the one in ten
A number on a list
I am the one in ten
Even though I don`t exist
Nobody Knows me
Even though I`m always there
A statistic, a reminder
Of a world that doesn`t care

One in ten – UB40

 

A Luglio fa caldo. A Venezia, a Luglio, fa ancora più caldo. L’umidità diventa l’ospite indesiderato, ti bracca come faceva Gentile con Maradona ai Mondiali di Spagna. Se alla mattina, quando attraversi il Canal Grande ti sembra di essere sul Mekong, capisci fin da subito che anche quella sarà una lunga giornata.
Dopo anni oramai conosco i punti più freschi della città, dove pure nei giorni di afa assoluta l’aria si muove, passa tra le gole create da edifici quasi millenari generando insperate brezze estive, ed è qui che mi fermo ogni tanto, cercando in qualche modo di sopravvivere. Chi lavora in ufficio è salvato dall’aria condizionata, che rende la vita (lavorativa) di migliaia di impiegati meno dura, per quanto i pochi operai del vetro che ancora lavorano nelle fornaci di Murano avrebbero qualcosa da ridire in merito al lavoro duro degli impiegati.

Poi, tra questi due estremi, c’è l’ufficio di collocamento.

Dopo oltre vent’anni questo è il mio primo Luglio da disoccupato, va bene così, sono cose che capitano. Una mattina perciò mi convinco a sfidare il caldo feroce e i branchi di turisti, e mi presento alla sede dell’ufficio di collocamento di Venezia. Già interpretare l’indirizzo è una mini selezione, il sito del Comune di Venezia riporta “S. Croce 482, Fondamenta Sant’Andrea”, per chi non è di Venezia una fondamenta è una strada che ha uno dei due lati delimitato da un canale. L’ufficio di collocamento di Venezia si trova effettivamente al numero 482, ma è pure a circa 300 metri dal canale più vicino, così, giusto per confondere le idee.

Una piccola targa sulla porta ti fa capire che sei nel posto giusto, dopo un piano di scale si raggiunge un corridoio senza finestre, lungo circa 40 metri, illuminato da una fila di neon.

Il rilassante corridoio dell’Ufficio di Collocamento di Venezia

Il primo si accende e si spegne di continuo, temo che ad un certo punto possa partire qualche scintilla, sembra un ospedale abbandonato, dalle porte sulla sinistra (il lato opposto è un lungo muro senza finestre e senza porte, con fotocopie e poster, tutti con date che vanno tra il 2011 e il 2014, appesi in modo disordinato) non si sente alcun rumore, tranne il leggero ronzio dei neon, non mi stupirei se improvvisamente uscisse uno zombie, ma fa troppo caldo persino per loro.

Oltre all’assenza di persone, mi colpisce l’incredibile silenzio, amplificato da una temperatura che, senza l’aria condizionata, sfiora i 40 gradi.

Poggiando la mia vita su alcuni pilastri, come la musica, i libri e i fumetti (ok, ci sarebbe anche l’Inter, ma fra tutti è il pilastro meno stabile), mi ero preparato all’incontro con un ascolto massiccio degli UB40, la band reggae, nata a Birmingham a fine anni 70, che deve il proprio nome al modulo che dovevano compilare i disoccupati inglesi per richiedere il sussidio (Unemployment Benefit, form 40).

Negli anni 70 il destino della Gran Bretagna industriale era segnato, la politica ultra liberale della Thatcher fece il resto, e le file dei disoccupati raggiunsero dimensioni bibliche.

Prevedibile che in una delle città più stravolte dalla disoccupazione post industriale nascesse una band che unisse la rabbia della classe operaia con la musica che, grazie a Bob Marley, era diventata il simbolo della rivolta degli oppressi.

“Signing off”, il disco d’esordio degli UB40, band multietnica anche se in prevalenza “bianca”, è uno di quelli che chiunque dovrebbe avere (o ascoltare almeno su spotify, che vi devo dire, fate come volete).

La sezione ritmica, il basso e i fiati si muovono all’unisono, creando la base sulla quale la voce armoniosa e nasale del più giovane dei fratelli Campbell, Ali (abbreviazioni dell’inglesissimo nome Alistar), canta la rabbia quotidiana delle classi più deboli inglesi.

Sono tutti giovanissimi, attorno ai 20 anni, ma incredibilmente suonano come una band di veterani. Il disco, nella edizione in CD, è composto da brani originali, con due splendide eccezioni, due cover di standard jazz che gli UB40 fanno propri e che dimostrano una classe fuori dal comune: “I think it’s going to rain today” e la straordinaria “Strange fruit” resa immortale da Billie Holiday, ma in realtà scritta da Lewis Allan, un avvocato americano di origine ebraiche che successivamente adottò i due figli orfani dei coniugi Rosenberg, dopo che il governo USA aveva condannato a morte i genitori, accusandoli di spionaggio a favore degli USSR (capirai, ebrei e comunisti, facili bersagli).

Coperta di “Labour of love”, primo CD in assoluto da me comperato.

La carriera degli UB40 all’inizio rimase in bilico tra una band di protesta (difficile essere credibili se hai un conto corrente a sei cifre e se non sei un guru, o se non hai Casaleggio & c. a montare campagne marketing fasulle) e una band da cocktail bar, alternando album eccezionali, anche di sole cover, come il primo “Labour of love” (il mio primo CD in assoluto) a produzioni infelici. Più che il conto in banca, sulle sorti degli UB40 pesò la scomparsa del loro produttore, Ray “Pablo” Falconer, fratello del bassista della band, Earl Falconer, ucciso in un incidente stradale causato proprio dal fratello, al volante completamente ubriaco, ma che uscì illeso dalla macchina distrutta.

Dopo sei mesi passati in carcere Earl Falconer riprese a suonare con gli UB40, che continuarono così la loro attività, virando sempre di più a band da crociera, anche se ogni tanto diedero alle stampe album di buon livello, in fin dei conti il talento c’era.

Ad un certo punto li vidi pure dal vivo, ad Udine, assieme a due tipe di Pordenone, amiche di amici, che non incontrai mai più dopo il concerto. Gli UB40 quella volta svolsero il loro compitino, suonando per un paio di ore gran parte del loro repertorio, incluso tutto quello che all’epoca era il loro ultimo lavoro, “Rat in the kitchen”, col senno di poi nemmeno il loro peggior album.

Ma la canzone che fischietto, appena imboccato il corridoio dell’ufficio di collocamento è “One in ten”, canzone di denuncia e hit single del loro secondo album, “Present arm”, altro capolavoro.

Lo fischietto così, per fare lo sbruffone e per farmi coraggio, l’inno dei disoccupati nel tempio dei disoccupati, cercando di individuare quale delle categorie elencate da Ali Campbell si avvicini di più al mio presente instabile.

Sarò “a sad and bruised old lady”? Un “middle aged businessman”, oppure “another teenaged suicide”? Ci provo, ma la canzone mi si strozza in gola, quel lunghissimo corridoio deprimente, quel caldo irreale, lasciano poco spazio ai “beau geste”.

Percorro metà di questi 40 metri, le porte sono tutte chiuse, quale metafora migliore, sull’ultima c’è scritto di bussare e attendere. Lo faccio, busso e attendo, dieci minuti, non succede nulla, forse davvero c’è uno zombie incastrato sotto la scrivania.

Jane Wyman, personaggio principale di Falcon Crest, in gioventù fu moglie di Ronald Reagan.

Mi faccio coraggio e ribusso, dopo un minuto la porta si apre di circa 10 gradi, da dietro la fessura una signora ferma agli anni ’80 sussurra che è occupata e mi invita ad attendere.

Passa un quarto d’ora la porta si apre ed esce una persona, approfitto di questa finestra temporale ed entro in ufficio, e capisco tutto. La stanza è gigantesca, la parete più grande è una vetrata che si affaccia su di un giardino (dalla strada, dove dovrebbe esserci il giardino inspiegabilmente si vede un muro di cemento), una leggera brezza generata da un silenziosissimo condizionatore d’aria mi accarezza la fronte madida di sudore, per un attimo sento degli uccellini cantare, ma forse è un illusione.

La signora, vestita come se fosse in una puntata di Falcon Crest, prende un mio documento, pigia dei tasti a caso sul computer e mi consegna il modulo timbrato e compilato.

Esco dopo due minuti, purtroppo il corridoio è ancora lì ad aspettarmi, deserto e caldissimo, con il neon che traballa, vorrei tornare indietro, dalla signora di Falcon Crest e dalla sua aria condizionata, chiederle di tenermi con lei per sempre, nel suo meraviglioso ufficio, ma indietro non si torna, nemmeno per prendere la rincorsa, la vita va avanti.

E poi chi vorrebbe vivere in un mondo fatto di capelli cotonati e spalline imbottite.

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