Il 13 magggio 1988 stavo suonando in un club a Parigi. Durante l’intervallo un mio amico mi ha detto che Chet era volato giù da una finestra d’albergo ad Amsterdam ed era morto sul colpo. Come non avesse le ali.
Con la magia in tasca – Enrico Rava
Ho sempre avuto la passione per il Cinema, ho visto film in qualsiasi delle (ex) sale cinematografiche di Venezia: ho resistito pomeriggi interi sulle dure sedie di legno del Cinema Accademia, ho sopportato la puzza di “cane bagnato” che emanavano le poltrone del Cinema Olimpia inzuppate da un’acqua alta epocale.
Ma era durante i primi giorni di Settembre che la mia passione cinefila toccava le punte più alte, quando finalmente iniziava la Mostra del Cinema del Lido di Venezia.
Erano edizioni con più qualità ma meno glamour rispetto alle ultime, senza red carpet, nani e ballerine, o per lo meno è quello che mi ricordo. Partivo ad un certo punto della giornata da casa mia, resistevo alla tentazione di fermarmi in spiaggia, invogliato dall’aria tersa e dall’acqua cristallina che l’Adriatico offre solamente a Settembre, e mi infilavo nelle varie proiezioni.
Dalla mattina fino a notte inoltrata.
Orbitare quelle 12 ore al giorno nei dintorni del Palazzo del Cinema poteva sembrare uno spreco di tempo ed energia, ma portava con se qualche vantaggio, c’era certamente il rischio di vedere i soliti perditempo intellettuali con il il tesserino dell’accredito ben in vista (gli stessi che ritrovavi alla stazione dei treni, sempre con l’accredito esposto, of course), ma potevi anche incrociare qualche regista o attore famoso, come quando andai quasi a sbattere contro un monumentale (in tutti i sensi) Sergio Leone, però questa storia ve la racconto (forse) un’altra volta.
Il vantaggio maggiore era quello di vedere film in lingua originale che mai più avresti potuto vedere (e a volte dopo la proiezione non avresti mai più voluto vedere). I titoli dei film visti in anni di Mostra sono ormai perduti nella memoria, e nemmeno io me ne ricordo più tanti. Ecco, ora che ci penso qualcuno me ne viene in mente, come un film ungherese con Giulietta Masina (Frau Holle) oppure un devastante film finlandese (Il Pozzo), comunque sempre film visti a caso, giusto perchè mi trovavo da quelle parti.
La sfida maggiore era quella di riuscire a scroccare l’ingresso, devo ammettere che per qualche anno mia sorella lavorò per la redazione della Biennale durante il periodo della Mostra, in più spesso avevo altri amici nel “cinema business”, anche se non proprio nei ruoli più nobili, perciò recuperare un biglietto non era poi così difficile.
L’anno del mio record (27 film in poco più di una settimana) riuscii a vedere un film, del quale non ricordo il titolo, grazie ad un mio amico che doveva portare le pizze con le pellicole (una volta si faceva così) e che vedendomi in difficoltà, mi diede una pizza e mi invitò a seguirlo, facendomi entrare in platea passando da dietro lo schermo.
All’epoca mi piaceva molto la fotografia, una passione che speravo potesse diventare una professione, seguivo con attenzione quel mondo, perciò quando seppi che alla Mostra ci sarebbe stato un film di Bruce Weber, un fotografo di moda, maestro del bianco e nero per il quale nutrivo una smisurata ammirazione, andai al Lido a colpo sicuro.
Il film parlava di tale Chet Baker, un musicista jazz del quale non sapevo nulla, ma andava bene così, sfido qualsiasi ventenne a sapere qualcosa di jazz.
Il problema era il biglietto, mia sorella non era riuscita a recuperarne uno gratuito, del mio amico “pizzaiolo” non c’era traccia, insomma ero ad un passo dal pagare il primo biglietto di quell’edizione.
Feci un ultimo tentativo con mia sorella, che ebbe un’intuizione geniale, l’ufficio del mega direttore galattico si trovava al piano superiore della Sala Grande e aveva una porta secondaria che si apriva direttamente in galleria, il tipo non fu particolarmente entusiasta all’idea di farmela usare, però si fece intenerire dalla mia situazione.
Dovevamo aspettare il buio in sala per evitare di farmi scoprire, così appena si spensero le luci, il direttore aprì la porta e mi ritrovai inghiottito dal nero feroce della Sala Grande. Scesi di qualche fila e a tentoni mi infilai verso il centro, mi accorsi troppo tardi che i posti migliori erano già occupati, ma oramai stavano partendo i titoli di testa, perciò mi accontentai di una poltrona un po’ decentrata.
Il film inizia in sordina, ci sono un paio di ragazze (vestite) che parlano e ballano sulla spiaggia di santa Monica, a Los Angeles, con loro due giovanotti di bell’aspetto, uno dei quali scoprirò molto dopo essere Flea, il bassista degli allora quasi sconosciuti “Red Hot Chili Peppers”.
La “fotografia” del film è quella che mi aspettavo, con delle inquadrature e un bianco e nero straordinari. Bruce Weber alterna foto e immagini del passato (anni ’50 e anni ’60) con fotografie e immagini del presente, in un bianco e nero così intenso che dopo qualche minuto ti abitui, ti rassegni all’idea che il colore non potrebbe che togliere qualcosa e non aggiungere.
Chet Baker giovane è di una bellezza irreale.
La dipendenza dall’eroina è l’altra protagonista del film, assieme alle magnifiche registrazioni originali che Chet Baker si/ci regala appositamente per il lungometraggio di Weber.
Mentre il film prosegue, io mi accorgo che mi sto perdendo in quella voce d’angelo. La tromba di Chet Baker è il piede sinistro di Maradona, il pennello di Van Gogh, la penna di Fitzgerald, resto ipnotizzato dal suo suono, e poi c’è quel bianco e nero….
Bruce Weber non ha pietà, in senso buono, non fa sconti ma non affonda la sua cinepresa sulla caduta dell’angelo Chet Baker, si limita a raccontarla, come fosse l’altra faccia della stessa medaglia, alternando interviste a vecchi amici (pochi) alla madre (una dolce vecchietta) e ai familiari, palesemente a disagio nel parlare di un uomo che è a loro quasi sconosciuto.
L’aspetto angelico del giovane trombettista era scomparso del tutto probabilmente già negli anni ’60, quando la fama di artista anticonformista e maledetto di Chet Baker aveva ispirato una specie di film biografico con Robert Wagner come protagonista (perchè nel frattempo Chet era stato arrestato in Italia) intitolato “All the fine young cannibals” (esatto, é dal titolo del film che la quasi omonima band famosa a cavallo degli anni ’80 e ’90, aveva preso il proprio nome).
Nei ritratti in movimento che Bruce Weber gira in bianco e nero, la straordinaria bellezza di Chet Baker è invisibile, nascosta da rughe profonde, segnata da anni di eroina. In fin dei conti non ha nemmeno sessant’anni, ma ne dimostra 20 in più, almeno fino a quando non inizia a cantare, e allora ti accorgi che dietro quella maschera di rughe, un angelo forse c’è ancora.
Il ritratto che viene fuori di Chet Baker è quelle di un uomo piccolo, piccolo, egocentrico, un tenero bugiardo del quale però non puoi che innamorarti.
Quando racconta di come degli “sconosciuti” gli spaccarono la bocca (probabilmente per debiti di droga), di come fu costretto a imparare a suonare la tromba con la dentiera e di come finì per 3 anni sopravvivendo con ogni tipo di lavoro, incluso il benzinaio, inevitabilmente frega anche te, e finisci per stare dalla sua parte.
Verso la fine del film canta “Almost Blue” dal vivo, davanti ad una platea fino a quel momento distratta e caciarona, che riprende con una sorprendente severità, e ancora Chet Baker compie l’ennesimo miracolo, ipnotizzando tutti i presenti.
Se avesse potuto vivere solamente durante gli attimi delle sue canzoni, sarebbe stato un uomo perfetto.Mi viene difficile trasportare le emozioni di quel film, bisogna vederlo e basta, immergendosi dentro, anima e corpo.
Il film sta per finire, prima dei titoli di coda compare una scritta che dice che Chet Baker é morto il 13 maggio 1988*. Lo so, avrei dovuto saperlo, mi sarei dovuto informare prima, ma che Chet Baker fosse morto lo scopro solamente in quel momento, e mi viene un groppo in gola.
Le luci si accendono, sto quasi per piangere, l’emozione in sala si può quasi toccare, il pubblico in platea (nemmeno così tanto) si gira vero di me, ancora seduto in galleria.
Su due piedi penso che mi hanno scoperto, qualcuno che sapeva della porta numero 2 del mega direttore ha fatto la spia, mi sembra strano però. Poi sono tutti in piedi, ed iniziano ad applaudire, pure qui penso che va bene, ammetto che passare attraverso l’ufficio del direttore è stato un colpo di genio, ma addirittura applaudirmi mi sembra troppo.
Qualcuno due poltrone più in là della mia, verso il centro, inizia a ringraziare, così mi accorgo che gli applausi erano giustamente per il regista e il cast del film, che hanno visto il film seduti ad un paio di metri da me.
Mi tranquillizzo, ho assistito ad un capolavoro, al film più cool di sempre, nessuno potrà dirmi nulla se inizio a piangere.
*CHET BAKER è morto venerdì 13 maggio 1988 alle 3 a.m., aveva 58 anni. Il giornali scrissero che era caduto dalla finestra del suo albergo di Amsterdam. La polizia si limitò a dire di aver trovato il corpo di un uomo di 30 anni con una tromba. Quella sera, a Parigi, in tutti i Club di Jazz, non i suonò.
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