Tsukumogami

“Gli Tsukumogami sono oggetti di uso domestico animati. Una otogizōshi (“storia in compagnia”) intitolata Tsukumogami ki (“Raccolta di Kami degli oggetti”; del periodo Muromachi) spiega che dopo una vita di servizio durata quasi cento anni, gli utsuwamono o kibutsu (contenitori, attrezzi e strumenti vari) ricevono un’anima. Mentre si fa spesso riferimento a quest’opera come un’importante fonte per la definizione di tsukumogami, insufficiente attenzione è stata dedicata all’effettivo testo di Tsukumogami ki”

Da Wikipedia

Ci sono i fantasmi a casa mia. Non quelli classici, ammesso che esistano, cioè quelli che ti tengono sveglio nel buio della notte, con  le loro presenze invisibili e rumori inspiegabili. I miei fantasmi sono quasi veri, popolano oggetti che stanno immobili sugli scaffali, producono strati di polvere, recidivi, impassibili davanti ai rari tentativi di disinfestazione.

Abitano nei libri di mio padre che non ha mai letto, dormono tra le monete senza valore che nessuno più guarda, nelle foto che ogni tanto sbucano da scatole dimenticate.

Sono un “accumulatore” medio, potrei smettere quando voglio, il punto è che non ne vedo il motivo. Anche perché, nel mio essere agnostico, credo nello “tsukumogami”, pur nella versione light inventata da me (che non prevede l’obbligo dei 100 anni prima che gli oggetti si animano di spirito proprio), semplicemente perché per me è negli oggetti che vivono le persone che non ci sono più. 

Avendo la casa piena di oggetti appartenuti ai miei genitori, potete capire come questi miei fantasmi siano veri.

Inoltre, da quanto ho memoria, per casa mia sono passate decine di persone, da parenti lontani a nuovi amici, che a volte lasciavano dei ricordi, degli oggetti. Il lavoro di mio padre lo portava a conoscere decine di persone al giorno, ma essendo un personaggio bizzarro, in alcuni casi diventava davvero loro amico, nonostante avesse piazzato la solita patacca di vetro di Murano, e spesso a distanza di anni tornavano a trovarlo, fermandosi anche se per poche ore nella nostra microscopica casa.

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Mate, cucchiaini sulla copertina, in pelle di vacca, del “Martin Fierro”

Ad esempio mi ricordo di alcuni signori argentini, che portarono un paio di mate (e annesse bombilla) per bere l’omonima erba, dei kitchissimi cucchiaini d’argento ispirati alla vita dei gauchos ed una copia del poema epico “Martin Fierro” rilegata in pelle di vacca (!?), poi fu il turno di un tizio spagnolo, figlio di un amico di mio padre che si piazzò da noi per una settimana. Ad un certo punto arrivò anche Mario, il genovese nato nel 1900 ed emigrato negli USA nel 1923 (del quale ho già parlato in questo post) che tornò in Italia un ultima volta a 84 anni, e che ovviamente si fermò da noi.

Una leggenda familiare narra di un homeless polacco (rarità negli anni ’60) che mio padre trovò infreddolito dormire in una barca sotto casa e che, tra lo sgomento di mia madre, fece stare a casa nostra per qualche giorno. Senza contare gli ex commilitoni, tra tutti un tizio di Costa di Rovigo che vedeva ogni anno, ed un signore di Firenze che apparve direttamente 40 anni dopo il giorno del congedo.

Le ultime persone che passarono di qui furono una coppia di medici rumeni che mio padre aveva conosciuto a Venezia ad inizio anni 70 e che a sua volta visitò nel 1973, tornando con una serie di oggetti del socialismo rumeno, inclusa una copia della biografia di Ceausescu con tanto di dedica (dei dottori, non del Conducator). Crollato il muro di Berlino decisero di vedere un po’ di Europa, passarono perciò per Venezia, mia madre non c’era più, ed io ero poco più che ventenne, ammetto che non fui particolarmente simpatico, a pensarci adesso non fu un bel modo per chiudere quasi trentanni di ospitalità internazionale.

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Ovviamente tra gli ospiti più frequenti c’era anche “lo zio americano”, che poteva tranquillamente permettersi un hotel a 5 stelle, ma che veniva obbligato a stare nel nostro appartamento di 70 metri quadrati sovrappopolato e con  un solo bagno, ogni tanto non ci avvisava neppure, suonava il campanello all’improvviso, si annunciava al citofono come “Gesù Cristo”  e saliva le scale con la bionda di turno. Per me era una specie di supereroe, mio padre lo considerava un fratello piccolo e mia madre ne accettava la sana follia, convinta che prima o poi avrebbe messo la testa a posto.

Una volta venne con i due figli, entrambi su vent’anni, la cosa mi deluse un po’, abituato com’ero a vederlo ogni volta con donne (e che donne) diverse, ma come racconta la storiella dello scorpione e della rana, ad un certo punto non riuscì a trattenersi ed assieme ad uno dei figli rimorchiò un paio di ventenni finlandesi che portò a casa per cena.

Quella sera, in concomitanza con altri amici di una delle mie sorelle in visita in città, mia madre, senza battere ciglio,  preparò da mangiare per 14 persone, record assoluto mai più superato.

Tra i vari personaggi degni di un romanzo di Soriano, c’era un tipo del Lido di Venezia, tale Mimo, che mio padre conosceva per qualche strano motivo mai chiarito.

Ne ho un ricordo piuttosto sfuocato, so che a metà anni ’60 era emigrato in Svezia dove si era sposato con una bellissima donna (come tutte le donne svedesi immaginate dagli italiani degli anni sessanta), aveva avuto una figlia e, dopo un po’, avviato un ristorante.

La versione che girava in casa era che, nell’arco di un paio d’anni, il fisco svedese gli presentò il conto, e visto l’enormità della cifra (all’epoca in Italia le tasse erano al confronto trascurabili) pensò bene di scappare e tornare in Italia. Il fatto che lasciò moglie e figlia in Svezia onestamente non mi convinse mai del tutto, probabilmente le tasse furono la scusa romanzata per mascherare un semplice divorzio.

Comunque tornato in Italia continuò a vivere come in una canzone di Aznavour, fregandosene del domani e sfidando la sorte tutti i giorni. Ad esempio, pur abitando al Lido di Venezia ed essendo obbligato a prendere i vaporetti ogni giorno, si rifiutò sempre di di munirsi di biglietto, ovviamente non prendendo mai in considerazione l’ipotesi di farsi l’abbonamento. 

Credo che a volte lavorasse con mio padre, ma la sua attività principale (e questo la dice lunga sul personaggio) era giocare a poker, insomma con le carte ci campava, per questo motivo ogni tanto a casa nostra arrivava un mazzo di carte quasi nuove, ma rovinate di quel poco che non potevano più essere usate da “professionisti”.

Le carte non furono la solita cosa che il tipo ci lasciò a casa, ad un certo punto, incomprensibilmente, ci portò 3 contenitori pieni zeppi di 45 giri, tutti degli anni ’60, che si era portato dalla Svezia il giorno della sua fuga, diciamo che non credeva molto allo tsukumogami.

Tempo fa mi sono imbattuto in un blog fatto quasi interamente di sole immagini, il curatore della pagina si  era preso la briga di recuperare le peggiori copertine della discografia Jugoslava degli anni ’70, creando una galleria straordinaria. Guardando i fotomontaggi infelici di Ljuba Alicic, le ginocchia villose di Saveta Ivanovic e il sorriso ammaliante di Saban, mi sono tornati in mente i tre cofanetti con i 45 giri “svedesi” così ho pensato di condividere con il mondo alcuni di quei dischi.

Le foto che trovate qui sotto non reggono il confronto con quelle Jugoslave, lo ammetto, ma queste avevo, abbiate rispetto per me, e soprattutto per quel signore che barattò la moglie, la figlia e un ristorante per una manciata di 45 giri.

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Oh, The Platters!
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Perez Prado e i suoi baffetti da sparviero
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Uno e trino, un sexy Booby Angelo
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Vid schlagerfestivale i San Remo 1962 (Tony Renis)
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Però, questa Connie Francis!
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Ancora Connie Francis, in versione meno sexy (certo che “The biggest sin of all “promette)
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L’indimenticabile (!?) Towa Carson
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Ballerine in ammirazione di Mr Blue (The Fleetwoods)
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Caminetto acceso e la serata inizia. By The Adam Singers
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Tale Guy Mitchell, occhi verdi e mascella da combattimento
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Gialla copertina per Hank Williams, JR
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Un trentenne Ernie Englund, invecchiato assieme alla copertina.
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The Kingston Trio, stranamente tutti bianchi.
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Hugo Winterhalter, attorno una meravigliosa copertina rossa.
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La geometrica astrazione di Fletcher Henderson and his orchestra

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. consules ha detto:

    Fantastico post, in perfetto stile Poltronauta, ho “viaggiato” dal divano nello spazio-tempo di quarant’anni dall’Argentina alla Svezia.
    No te conosso ma ti ze massa forte. Scrivi presto ancora!

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    1. Il Poltronauta ha detto:

      Grazie mille! Felice ti sia piaciuto, spero di essere all’altezza delle aspettative. Alla prossima.

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