Nel 2005, mentre un tale Mario Boni, all’epoca un atletico quarantaduenne, riportava la Virtus Bologna in serie A, partiva al Lido di Venezia la prima edizione del Torneo dei Sestieri.
Al solito sempre sul pezzo, 11 anni dopo ho pensato di andare a vedere di cosa si trattasse, visto che pure quest’estate i mattacchioni del comitato promotore avevano avuto l’ardire di organizzare questo circo ancora una volta. Per fare lo snob mi dico che la scusa ufficiale per lasciare la mia amata poltrona è il maxischermo dove verrà proiettato l’ottavo di Euro 2016 Germania – Italia, ma è davvero una scusa.
Arrivo al Lido dopo le 8 di sera, la temperatura è quella di “Morte a Venezia”, quella simpatica afa che ti abbraccia come una ragnatela e ti rallenta i movimenti, difficile pensare che ci siano una ventina di baskettari pronti a sfidarla giocando quattro quarti su di un campo all’aperto.
Essendo la mia prima volta al torneo e conoscendo i trasporti pubblici del Lido come la metropolitana di Quito, salgo sul primo autobus e chiedo all’autista se si tratta della linea giusta per il “Pattinodromo”, e mentre lo dico visualizzo, senza alcuna ragione, la smorfia di James Caan nel film “Rollerball”, mentre si fa mazzolare sui pattini. Evidentemente l’autista di celeste vestito ha la cultura cinematografica del Gibbone dalle mani bianche, e non batte ciglio, anzi mi guarda confuso, poi gli dico che devo andare al Torneo dei Sestieri , a quel punto cambia espressione, i suoi occhi si illuminano e mi risponde sorridendo, nemmeno fosse un mio ex compagno di scuola: “Ciò, ti xe sul bus giusto, 5 minuti e semo rivai”.
Il bus è bello pienotto, possibile che stiano tutti andando al torneo?
Dopo 30 secondi, complice un iMob difettoso, mi trovo a dialogare con due miei coetanei, li guardo e mi chiedo se davvero sono così vecchio. Mi ritrovo improvvisamente dentro ad una di quelle pagine di Facebook di “gentisti”, dove la gggente si sfoga accusando i politici di magna-magna, lamentandosi che la città è in mano agli abusivi e tutto il solito repertorio.
Io abbozzo come al solito, vorrei dire loro che oggi è il primo giorno del Torneo dei Sestieri ma capisco che l’argomento potrebbe risultare di poco appeal, mentre arrivo alla fermata (in effetti 5 minuti, come diceva l’autista) il più loquace dei due inizia a spiegare che gli immigrati stanno nei residence a 4 stelle, mentre gli italiani dormono in macchina, che adesso “sti africani” esigono 40 € al giorno.
Saluto e scendo al volo con mezzo autobus che annuisce, convinto di trovarmi circondato da extracomunitari con abiti firmati ed iPhone nuovi di zecca, ma niente, non ne vedo nessuno, deve essere la mia serata fortunata.
Eccomi al Pattinodromo, è più grande di quanto mi aspettassi, credo abbia avuto tempi migliori, come la tribuna (ripidissima), ma la macchia di colore del campo, montato con la solita pazienza il giorno prima, è una ventata di aria fresca. Proprio quello che ci vorrebbe adesso, mentre il sole tramonta su Marghera e le zanzare iniziano a fare stretching prima del banchetto serale.

Mi arrampico fino a raggiungere l’angolo più alto e lontano della tribuna, quello rivolto verso l’acqua, il panorama è rassicurante, i colori pastello della laguna sono ancora più ovattati dal velo dell’afa, e non si muove una foglia.
Come diavolo faranno a giocare quei tipi laggiù sul campo? Io sono immobile, in cima alla scalinata, e sto sudando tutta la Moretti che ho appena bevuto (tra l’altro 2 € spesi benissimo), mi arrivano gli echi dei rimbalzi del pallone e le urla di incitamento delle due panchine, la partita è tiratissima, da quassù le movenze e le percentuali al tiro non hanno nulla da invidiare ad un paio di partite della Reyer viste l’anno scorso, e non è un complimento.
Non gioco a basket da una vita, James Naismith (l’insegnante di educazione fisica inventore dello sport, ndr) dorme sonni tranquilli, quelle poche volte che l’ho fatto non ho lasciato certamente il segno.
I miei primi palleggi li ho fatti in Ruga do pozzi, sotto casa mia, con un canestro artigianale attaccato alle mura di un palazzo, all’epoca abbandonato ed ora “diversamente abitato” (hotel), con i masegni che restituivano rimbalzi irregolari, così, giusto per non stare mai tranquilli.
Qualche anno dopo in ruga ci venne ad abitare Ratko Radovanovic, stella (minore) jugoslava della Reyer. Purtroppo ero troppo grande per farlo, ma più di una volta pensai di attaccare il tabellone al muro e aspettare paziente il ritorno a casa di mr Ratko, per sfidarlo uno contro uno.
Continuo a osservare quei giovanotti in canottiera mentre corrono sul campo, macchie gialle (Dorsoduro) contro macchie azzurre (Lido), la sfida è molto equilibrata. Mi concentro sui miei pochi momenti da baskettaro, stranamente vissuti sempre in campi all’aperto, dalla ruga al campetto dell’Alvisiana, un solo misero anno di mini basket, poi il campo della Laetitia, a Madonna dell’Orto, da solo d’estate mentre aspettavo qualche disperato come me per giocare a calcetto.
Ho sempre rispettato il canestro, perché potevi sfidarlo anche da solo, ho maturato l’idea che alla fine, non importa quanti siano i giocatori in campo, la “battaglia” è sempre con lui. Capisco la passione che spinge uomini e donne a voler insistere a sfidare quell’anello, non importa l’età, gli acciacchi, le ginocchia irrigidite e la schiena dolorante, per un vero baskettaro quella retina è il centro dell’universo, un buco nero che ti risucchia, è impossibile passarci vicino senza provare, almeno con il pensiero, a sfidarlo. Quante volte nelle mie partite solitarie ho pensato “se entra questo sarò promosso”, oppure “ se ne faccio 3 di seguito riuscirò ad uscire con quella tipa”? Sono certo che l’abbiamo fatto tutti (spero non per la stessa tipa).
Capisco anche perché questo gruppo di pazzi continui ogni estate ad organizzare un evento del genere, semplicemente per amore, per fare uscire le persone in strada, abbandonando i loro costosi abbonamenti a Sky, e semplicemente “vivere” il basket nella sua quintessenza, fatta di sudore, rimbalzi, palle perse e ghiaccio sulle caviglie (e nei secchi con le birre).
Siamo ormai all’ultimo quarto della partita, ancora nessuna delle due squadre sembra voler vincere.

Ho visto i giganti camminare sulla terra, o meglio, sui masegni, il biondo Brian Jackson con il suo cane lupo, Praja e la sua sciarpa rossa, Floyd Allen, una divinità d’ebano alta due metri, sono riuscito persino a vedere un altissimo, dinoccolato e baffuto Egidio delle Vedove correre alle Fondamente Nove (solamente per prendere il vaporetto). Sono passati anni ma ormai quelle immagini sono saldate nella mia memoria, non riesco a sostituirle con nessuno dei giocatori della Reyer attuale, non me ne vogliate, forse è un problema anagrafico e basta.
Sento una specie di sirena, non è la fine della partita, ma è l’effetto sonoro che lo speaker lancia ad ogni tiro da 3 realizzato. Il tiro da tre è la metafora del capitalismo, più è alto il rischio fallire, più alta è la ricompensa in caso di successo, se il basket fosse nato in un paese marxista tutti i tiri varrebbero 2 punti, altro che.
Per far capire quanto tempo sia passato, all’epoca del mio esordio da baskettato il tiro da tre non esisteva, dopo qualche anno, quando fu adottato anche dal basket italiano, quegli archi di 7 metri scarsi comparvero in decine di campetti, inclusi quelli veneziani. Quello più vicino a casa mia si trovava in una specie di oratorio, esclusivamente maschile, chiamato “Cheba” (gabbia) per via di un muro altissimo che finiva con una rete e che lo separava dalle Fondamente Nove.
La Cheba (si fosse chiamata The Cage, sai quanto più rispetto?) ospitava una squadra di basket antica, ora ovviamente scomparsa, la “Die n’ai”, espressione di origine latina che in italiano significa “dio ci aiuti”, ogni tanto guardavo i loro allenamenti, aspettandone la fine per provare qualche tiro con dei Mikasa usurati. Quando appunto fu introdotto il tiro da tre, la società disegnò l’arco magico su quel campo di cemento consuma-scarpe (come quello della Laetitia a Madonna dell’Orto e di San Giobbe d’altro canto), molti giocatori cercarono di fare propria quell’arma, imitando i fuoriclasse NBA. Uno dei più noti all’epoca era tale Fred Brown, che tirava così spesso da lontano da essere diventato per tutti Fred “downtown” Brown, noi nel nostro piccolo non volevamo farci mancare nulla, così quando un ragazzino di nome Padoan si fece notare per la sua perizia nel tiro da tre punti, tutti iniziarono a chiamarlo Alessandro “da lontan” Padoan.
Mancano pochi secondi, il Dorsoduro è sotto di 1 punto, un loro giocatore prende il rimbalzo su un tiro sbagliato degli avversari e parte all’attacco, ma prima di superare metà campo si fa rubare la palla, ormai è finita, la prima partita termina 58 a 57 per il Lido.
Sul maxischermo la nazionale italiana ha appena iniziato l’ennesima sfida con la Germania, mi prendo un’altra birra, sempre 2 €, ed inizio a sudare.
Die n’ai, ma questa volta per una palla di cuoio.
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