So I walked into the old stop and
Ordered me up a cup of mud sayin
Big joes settin this dude up but
It got so deathly quiet in that
Place, you could of heard a pin drop
Big Joe and Phantom 309 – Tom Waits
Tempo fa mi è capitato di leggere un articolo che parlava delle fiabe dei fratelli Grimm. I due (linguisti/intellettuali/giuristi etc etc) ebbero, all’inizio dell’800, il colpo di genio di raccogliere decine di storie folkloristiche Tedesche ed Europee. Si “limitarono” sostanzialmente a mettere in forma scritta delle storie che venivano passate di generazione in generazione grazie al racconto orale. Fecero una specie di polaroid di questi racconti in continua evoluzione, cristallizzandoli negli anni Venti dell’800, li salvarono dall’oblio, ma ne bloccarono le trasformazioni, anche se quelle che raccontiamo ai bambini oggi sono molto spesso versioni edulcorate delle loro versioni ottocentesche.

Lo stesso articolo parlava di come spesso si trattasse di evoluzioni di quelle che ora chiameremmo “leggende metropolitane”, in alcuni casi le origini avevano in apparenza una base più storica. Come nel caso de “Il Pifferaio Magico”, ovvero “Il Pifferaio di Hamelin” (titolo originale “Der Rattenfänger von Hamelin”, cioè “Il cacciatore di topi di Hamelin”), una delle fiabe più tristi che abbia mai ascoltato (triste, ma pur sempre meravigliosa la versione delle “Fiabe Sonore” dei Fratelli Fabbri) , che pare traesse origine da episodi avvenuti durante le Crociate,quando dei truffatori giravano i paesi della campagna tedesca assoldando bambini-soldati per liberare il Sacro Sepolcro, e che invece finivano per essere venduti come schiavi. O forse no, forse semplicemente era una leggenda metropolita sfuggita di mano, come quelle che si sentivano da ragazzi.
Adesso ho l’impressione che non se ne raccontino più, temo che l’esplosione dei Social abbia spazzato via la tradizone orale, sostituendola con la più semplice condivisione di post che nell’arco di qualche giorno sono letti da migliaia di persone. E pazienza se più che leggende metropolitane siano bufale e che cliccare su “condividi” sia meno divertente di “raccontare” una storia, ma la cosa che mi irrita maggiormente è che spesso sono notizie messe in giro in cattiva fede, giusto per fare qualche soldino con i click.
Da ragazzino giravano molte di queste storie, lo schema era approssimativamente questo: 1) inizio soft, possibilmente ambientato in una situazione non proprio quotidiana (vacanza, discoteca), 2) introduzione di un elemento esterno, un po’ particolare ma in apparenza abbastanza normale (bella ragazza, puntura di insetto), 3) colpo di scena imprevisto e 4) chiusura con la morale più o meno dichiarata. Si raccontavano così, un po’ per passare il tempo, un po’ per stupire l’amico di turno.
Di leggende metropolitane ne sentii molte, e quasi tutte le raccontai a qualcun altro, perché in quanto tali, le leggende metropolitane dovevano girare, come fossero virus, obbligate a passare di persona in persona per sopravvivere.
Nella mia parrocchia c’era una signora che, causa un parto fatto di domenica in un ospedale mezzo deserto, aveva una figlia con dei fortissimi problemi psicofisici, la sua tenacia e il suo amore materno erano riusciti a costruire una rete di volontari che tutti i giorni si alternava per eseguire gli esercizi necessari per migliorare, se pur di poco, la vita della ragazza. Sapendo che nessun miracolo era alle porte.
Fatto di lunghe ore da passare vis-a-vis, quello era l’ambiente ideale per diffondere le leggende metropolitane, calcolando poi che la signora, per quanto dolce e gentile, era una DC convinta (per quelli nati con la seconda repubblica, DC sta per Democrazia Cristiana), perciò gli argomenti sui quali conversare con me erano ben pochi. E fu in una di quelle ore di volontariato che sentii la mia prima leggenda metropolitana, raccontata così come dovrebbe essere, spacciata per storia vera, con colpi di scena e una morale finale. Tutto iniziava da un viaggio in un’isola tropicale, se non mi ricordo male i protagonisti della storia si trovavano per una vacanza nel Madagascar.

Ma torniamo al titolo di questo post, “Big Joe and Phantom 309“, una canzone costruita interamente su di una leggenda metropolitana. La versione più conosciuta, almeno da me, è quella contenuta nel doppio vinile live di Tom Waits “Nighthawks at the Diner” (disco che purtroppo ho solamente nella versione CD). Si tratta del terzo album di Tom Waits, stranamente già in versione “Live”. Il titolo si ispira al famosissimo quadro di Hopper, “Nighthawks”, l’atmosfera che si respira ascoltando questo disco è proprio quella di una tavola calda, anche se in realtà viene suonato e registrato in due differenti serate (30 e 31 luglio del 1975) davanti ad un pubblico scelto tra amici e conoscenti dei musicisti, negli studi di registrazione Plant a Los Angeles, che per l’occasione vengono addobbati come un vero locale jazz unto, con tavolini, birra e patatine gratis. Per non farsi mancare nulla viene pure invitata una spogliarellista ad aprire lo spettacolo, come consuetudine in quegli anni per quel tipo di locali, ovviamente scovata e reclutata da Tom Waits nel sottobosco di Hollywood che frequentava.
Il suono è perfetto, le risate ed i commenti del pubblico si sentono quel tanto per farti immaginare tavoli da sparecchiare e sigarette accese, cameriere con le gambe gonfie e il taccuino per gli ordine nella tasca del grembiule. La copertina del disco è esattamente come te la immagini e come dovrebbe essere.
Quello che mi stupisce ancora ogni volta che ascolto questo disco è che all’epoca della registrazione Tom Waits non ha nemmeno 26 anni (praticamente l’età attuale di Fedez), ma ha la voce e la padronanza di scena di un consumato crooner.
Il disco alterna lunghe intro parlate (alcune delle quali tradotte e ripetute pari-pari nei suoi primi concerti da Vinicio Capossela, che evidentemente conosce questo disco quanto me) a 11 brani cantati e suonati con l’ausilio di una mini band di jazzisti. Per la prima e probabilmente unica volta, Tom Waits canta una canzone non sua (lui che era stato “coverizzato” pure da Tim Buckley) , cioè “Big Joe and Phantom 309”, scritta da tale Tommy Faile e pubblicata qualche anno prima (con scarso successo) da Red Sovine, una specie di cantante country che più che cantare narrava storie accompagnate da musica, amato soprattutto da camionisti. La versione di Red Sovine, se pur da considerarsi come quella ufficiale del brano (uscita semplicemente come “Phantom 309”) è terrificante se confrontata con quella di Waits, di peggio aveva fatto solamente Gabri Ponte con il “Geordie” di Fabrizio de Andrè/Joan Baez.

Il testo della canzone è da manuale delle leggende metropolitane, un classico esempio da ricordare e tramandare. Inizia con l’io narrante che si trova a dover tornare a casa dopo non essere riuscito a far fortuna nella East Coast, non ha un soldo e dunque decide di fare autostop. Fino a qua tutto bene, poi arriva l’elemento esterno, strano ma non troppo, in questo caso un camionista gigantesco (Big Joe) alla guida in un altrettanto gigantesco camion (Phantom 309) . I tipo fanno amicizia, si racconta un po’ di storie, fino a quando arrivano ad un incrocio, Big Joe ferma il camion, dice all’autostoppista che qui le loro strade si dividono perché deve girare per forza, ma prima di farlo scendere gli regala una moneta e gli dice di farsi un caffè alla tavola calda li vicina. Il tipo prende la moneta, entro nel locale e chiede un caffè, dicendo che lo manda Big Joe. E qui arriva il colpo di scena, tutti si azzittiscono, la cameriera sbianca e lui si chiede se ha detto qualcosa di sbagliato. La cameriera scuote la testa, gli dice che capita ogni tanto che qualcuno entri nella tavola calda mandato da Big Joe e gli racconta la storia di questo gigantesco camionista. A questo punto potrei pure raccontarvi il finale, ma oramai con google si trova tutto, arrangiatevi se siete curiosi.
Il finale della mia prima leggenda metropolitana però ve lo devo.
Dunque dicevo, questi tizi sono in vacanza in Madagascar, passando gran parte del tempo in spiaggia, negli ultimi giorni prima di partire vengono visitati ogni mattina da un cucciolo di cane, al quale ovviamente si affezionano. Arrivato il giorno della partenza non ci pensano due volte, il cucciolo è piccolo, i controlli in aeroporto evidentemente poco rigidi, decidono di riportare la bestiolina in Italia. Passano alcune settimane, il cucciolo cresce ma da giorni sembra non stare bene, finalmente decidono di portarlo dal veterinario. Nello studio c’è un altro cucciolo di cane, i due vengono lasciati da soli per qualche minuto fino a quando i piccoli guaiti diventano urla rabbiose prima che cali un silenzio innaturale. A quel punto il veterinario apre la porta senza esitare un istante e trova un cucciolo senza vita in una pozza di sangue mentre l’altro (quello del Madagascar) ferito ma ancora in vita. Allora lo raccoglie dal pavimento per cercare di salvarlo, ma guardandolo da vicino scopre che non è affatto un cane, bensì un raro esemplare di ratto gigante africano.
“Insomma”, mi dice la signora fermandosi “si erano portati in casa un topo ” e pronuncia la parola “topo” scandendo le due sillabe, TO-PO, mentre io visualizzo lo stampatello.
La storia si conclude tragicamente con una morale alla “Gremlins” e con il veterinario che è costretto a sopprimere il gigantesco ratto.
All’epoca questa storia mi colpì così tanto che la raccontai a decine di persone, tutte che ovviamente non sollevarono alcun dubbio sulla sua veridicità, o forse inconsciamente tutti sapevano che era una storia inventata, ma a volte le bugie sono divertenti, basta non prenderle troppo sul serio.
Almeno non dicevamo in giro che il bicarbonato con il limone guariva dai tumori.