Super Soul: This radio station was named Kowalski, in honour of the last American hero to whom speed means freedom of the soul. The question is not when’s he gonna stop, but who is gonna stop him.
Vanishing Point – Richard C. Sarafian, 1971
(attenzione, per i più pigri c’è la versione raccontata da Matteo Caccia in una puntata di Pascal, clicca QUI per ascoltarla)
“Zelig”, è un meraviglioso film di Woody Allen, un finto documentario, anzi un “mockumentary“che racconta la vita di Leonard Zelig, l’uomo camaleonte che per una particolare e unica condizione psicofisica riusciva ad integrarsi in modo perfetto (e a volte involontario) con le persone che lo circondavano.
Durante la pellicola diventa rabbino, consigliere del Papa, nazista, pilota di aerei. Ad un certo punto si trasforma in Irlandese ed essendo il film ambientato nei primi anni del 1900, inizia a ricordare la carestia di patate che mise in ginocchio l’Irlanda tra il 1845 e il 1849 (e che fece partire la prima diaspora di questa popolazione).
La Grande Carestia delle Patate è un mostro di dimensioni bibliche che gli Irlandesi anche ora ricordano come una nuvola scura nella loro storia.

Ma quasi ogni popolo ha la sua nuvola scura, una piccola apocalisse che se anche non vissuta direttamente, si tramanda di padre in figlio, si respira nella città in cui si vive, fino al punto di farla propria.
Per tutti i veneziani e dunque anche per me, la Carestia delle Patate è l’acqua alta del 4 Novembre 1966 che raggiunse l’altezza record di 194 centimetri sul livello del mare. Una mareggiata che colpì Venezia con una violenza inaudita, causata da tutta una serie di fattori nefasti che, se si ripetessero ancora oggi, porterebbe alle stesse tragiche conseguenze.
Mia nonna abitava in una casa a piano terra su una delle fondamente più basse della città, più o meno 80 centimetri sul livello del mare. La casa era davvero piano terra, nel senso che il livello era esattamente lo stesso della strada.
A dire il vero la casa era composta di due piani, a piano terra c’era l’ingresso, un piccolo corridoio, la cucina e una piccola corte che, grazie al clima umido da foresta amazzonica, era ricoperta di una florida vegetazione, probabilmente endemica.
Ma oltre alla corte, tutto il piano terra era piuttosto umido, con soffitti alti neanche 2 metri nessun intervento strutturale era possibile, e l’unico modo per cercare di salvare le ossa dall’umidità era quello di passare più tempo possibile al piano superiore, identico nelle dimensioni a quello inferiore.
Quando il Mostro del 1966 colpì la città, l’acqua invase il piano terra completamente, il soffitto era così basso che non fu possibile alzare gli elettrodomestici oltre il livello della marea. Mia nonna perse quasi tutto, quello che si salvò fu così tanto inzuppato di acqua (non esattamente di fresco ruscello) che a distanza di molti anni l’odore di quell’umidità non se n’era ancora andato. Ovviamente negli anni successivi iniziò ad usare quasi esclusivamente il primo piano, a piano terra ci andava solamente quando doveva pulire il pavimento dopo l’ennesima acqua alta e poche altre volte. Ma almeno non fu costretta all’esodo che colpì molti degli abitanti della città.

Difficile immaginare che in quei 70 metri quadrati totali mia nonna ci sia vissuta per oltre mezzo secolo, per alcuni anni in questi spazi ristretti ed umidi convissero addirittura sette persone. Visto oggi sarebbe una situazione insostenibile, ma all’epoca non era certo un’eccezione, questo spiega anche perché ad un certo punto gli abitanti di Venezia riuscirono ad essere oltre 150.000. Con la media di metri quadrati a persona e le dimensioni dei nuclei famigliari attuali, anche avendo a disposizione per i residenti quel 20% di abitazioni usate da turisti, dubito che mai si potrebbe raggiungere le 100.000 unità.
Il calo demografico della città ne ha ovviamente trasformato il tessuto sociale, soprattutto per quanto riguarda le attività commerciali che per forza di cose sono diventate sempre più orientate verso i turisti e sempre meno verso i (pochi) residenti. Si spiega così la scomparsa delle sale cinematografiche (tranne due, entrambe comunali) nella città che ha il più antico festival del cinema del mondo, e la quasi estinzione di altre attività (ci sono un paio di negozi di “elettronica”, uno di dischi, etc).
Una delle vittime illustri di questa mattanza fu un “negozio” che si trovava dietro piazza San Marco, in calle degli Albanesi (si, gli Albanesi frequentavano Venezia anche 700 anni fa, al punto che molte strade si chiamano “degli Albanesi”). In realtà non era un negozio vero e proprio, bensì quattro stanze tappezzate con degli acquari di medie dimensioni, poco più grandi di quelli casalinghi, dentro ai quali nuotavano svogliati pesci colorati, nemmeno troppo esotici. Da bambini quasi ogni domenica si finiva li dentro, attratti dai quegli esserini colorati ma sopratutto dalla teca dei piranha (o spacciati per tali) e da una vasca posta al centro dell’ultima stanza. Ai miei occhi sembrava enorme, ma probabilmente non aveva un diametro superiore ai due metri, e dentro a quell’acqua nemmeno troppo limpida galleggiava, in un perenne stato di dormiveglia una gigantesca (considerate le dimensioni della vasca) testuggine di mare. A memoria mia, uno degli spettacoli più tristi che abbia mai visto.
Non mi ricordo quando chiuse, penso a metà anni 80, forse dopo l’acqua alta del febbraio 1986, che con il sui 158 centimetri sopra il livello del mare fu la terza più alta di sempre. Credo che adesso nei locali dell’acquario ci sia un ristorante, alla fine sempre di pesci si tratta, ma questa volta un po’ meno freschi.
L’Estate del 2002 fu estremamente piovosa, sopratutto nell’Europa centrale. Le piogge e il brutto tempo lasciarono pochi giorni al sole, non abbastanza per permettere al terreno di assorbire l’acqua in eccesso, che andò a d ingrossare i già gonfi fiumi della zona, inclusi il Danubio, l’Elba e la Moldava, il fiume che attraversa Praga.
L’onda di piena colpì la capitale delle Repubblica Ceca a ridosso di ferragosto, le autorità cercarono di salvare il centro storico e i suoi monumenti, ma per fare questo sacrificarono il quartiere popolare e povero di Karlin, che subì danni enormi. Tra le zone più colpite ci fu anche quella dove si trovava lo Zoo di Praga, le prime notizie che arrivarono furono tragiche, con resoconti che parlavano di decine di animali travolti ed uccisi dalla piena, e tutti gli altri in pericolo. Tutti tranne uno, Gaston.

Gaston era un leone di mare di 12 anni, gran parte vissuti all’interno dello Zoo di Praga. Nell’Agosto del 2002 viveva con tre femmine, inclusa la sua compagna Mamut e il loro cucciolo, Meloun (ora star dello Zoo), di appena tre mesi. Quando la Moldava invade lo Zoo scoppia la confusione, la forza dirompente dell’acqua rompe le gabbie, gli addetti cercano di salvare il salvabile, partendo dagli animali che non riescono a nuotare, incluso Meloun. Nonostante le barriere della vasca siano sotto il livello dell’acqua Gaston e gli altri esemplari femmine continuano a restare nel loro ambiente famigliare, poi il mattino del 14 Agosto 2002 il ponte adiacente alla vasca crolla e i quattro si spaventano, uscendo dai confini della vasca. Le tre femmine vengono catturate quasi subito ma Gaston no, capisce di aver davanti l’occasione della vita, vede la luce filtrare dalle veneziane socchiuse (come dice Osvaldo Soriano) e si infila in quell’apertura. Forse come un maschio umano vuole scappare dalle sue responsabilità, oppure semplicemente la voglia di libertà è così forte che quel mattino Gaston saluta baracca e burattini (moglie e figlio inclusi) ed inizia a nuotare con tutte le sue forze verso il Mare del Nord, distante oltre 400 chilometri.
Sento la notizia della sua fuga al telegiornale, ed inizio ad appassionarmi.
Nei giorni successivi le segnalazioni si sprecano, quello che è chiaro a tutti è che il leone marino sta scappando verso nord, verso il mare.

Tutti i tentativi di catturarlo risultano vani, ad inseguirlo vengono mandate squadre a bordo di gommoni, si usano addirittura degli elicotteri, ma non si ottiene nulla, Gaston rimane imprendibile. Come Barry Newman/Kowalski di “Vanishing Point” (in Italiano “Punto zero”, cult road movie diretto da Richard C. Sarafian nel 1971, intriso della filosofia hippie tanto di moda dopo “Easy Rider”) la sua è una fuga pazza ed impossibile, un atto di ribellione tanto necessario quanto utopistico.
Passa il weekend e di Gaston sembrano essersi perse le tracce, ma è all’inizio della settimana che qualcuno lo nota nuotare sull’Elba. Lunedì 19 Agosto 2002, nei pressi di Lutterstad poco a nord di Dresta, quasi 300 chilometri da Praga, Gaston si arrende ad una delle squadre mandate a recuperarlo. L’animale ovviamente è stanco, anzi esausto, finalmente adesso potrà tornare a casa dalla famiglia, curato ed amato.
Ma qualcosa va storto, martedì 20 Agosto 2002, durante il viaggio di ritorno inizia a respirare a fatica, sembra abbia la febbre, i veterinari cercano di curarlo ma poche ore dopo la sua cattura (o salvataggio) il cuore di Gaston finisce di battere per sempre.
Il peggior finale per una storia che aveva tenuto col fiato sospeso migliaia di persone, incluse me, tutti speravano che finalmente Gaston potesse diventare un animale libero, e invece no. I veterinari incaricati dichiarano che il leone marino più famoso del mondo è morto per un’infezione e per stanchezza, anche perché non esiste un termine che indichi la morte dovuta alla fine della libertà, alla fine di un sogno.
Mentre leggo la notizia della morte di Gaston mi viene in mente la testuggine dell’acquario di Venezia, che forse davvero era stato chiuso dopo l’acqua alta del 1986, e forse proprio in quella occasione quell’enorme animale era riuscito a scappare dalla microscopica vasca ed aveva nuotato libera verso il mare, oppure no, forse se n’era andato prima e più semplicemente era finita della Valhalla delle tartarughe di mare.
Libera comunque.
bello e poetico, come sempre!
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