The man in the high castle (L’omo a Casteo alto)

There’s no place like home.
Dorothy – The Wizard of Oz

Il tecnico della Telecom sta trafficando con i cavi, per fortuna la nuova casa è tutta cablata. A parte qualche piccolo intoppo sta andando tutto bene, a minuti una fibra stra-veloce dovrebbe essere attivata. Visto che non c’è l’antenna, la mancanza di internet, soprattutto per mia figlia, si fa sentire.

Gatti di Castello (i gatti portano sempre “like”)

In meno di 4 giorni (weekend incluso) Telecom (o Tim) mi ha mandato un tecnico, quando gli ho aperto la porta ho realizzato che si trattava di Paolo, un tizio che conosco dalle scuole medie.

Mentre mi fa la radiocronaca di tutto quello che sta facendo, interrompendosi ogni tanto per chiedermi di Tizio e Caio, nostri amici di infanzia, a Paolo squilla il telefono, appena vede il numero sbuffa e mi fa l’occhiolino, è un suo collega.”Si, dimmi, sono da un cliente.” Silenzio. ” A Venezia, a Castello alto”. (purtroppo non è ancora chiaro se Castello alto si riferisce alla zona del sestiere con i numeri più alti oppure quella con il numero più basso, come se appunto la numerazione partisse da un’ipotetica collina, ndr).

Mi sono trasferito nella nuova casa da poche settimane, cambiando completamente zona della città, dal centrale sestiere di Cannaregio a quello “periferico” di Castello, in un punto vicinissimo a dove inizia la numerazione delle case (a Venezia la numerazione delle porte si basa sui sestieri, cioè sei quartieri della città che hanno numerazioni che partono dal 1 fino anche ad oltre 6000, dipende dalle dimensioni del sestiere stesso).

Quando Paolo pronuncia le parole “Casteo alto” ho un’epifania, sono io “The Man in the high castle” (come da Serie Netflix, tratta dal romanzo di Philip k. Dick “La svastica sul sole”), l’omo a Casteo Alto.

Castello deve il suo nome all’enorme chiesa di San Pietro (di Castello) prima basilica della cittá e prima sede patriarcale (fino a quando il titolo passò alla Basilica di San Marco). All’epoca la chiesa, anche oggi di notevoli dimensioni, doveva veramente apparire come un castello, vista anche l’assenza di palazzi degni di nota in zona.

Nel libro, e nella serie TV, si racconta di un presente distopico (finalmente, è dalla fondazione del blog che volevo usare questa parola, n.d.r.) dove l’asse Berlino-Tokyo, una volta vinta la seconda guerra mondiale, si divide gli USA, stabilendo nelle zone di appartenenza delle dittature feroci. Philip K. Dick scrive e ambienta il libro negli anni ’60. Per la cronaca nemmeno in questo mondo parallelo l’Italia vince la guerra, insomma riusciamo a fare una figura di merda anche in un libro di fantascienza.

Nella Venezia di questa mondo, quella dove gli alleati hanno vinto la guerra, una sorta di presente distopico si è comunque realizzato, una città che ha visto dimezzare gli abitanti nel giro di nemmeno due generazioni. Dove una realtà fatta di piccole attività in equilibrio fra di loro si è trasformata in un gigantesco centro commerciale ad uso e consumo di turisti, con una media di quasi 4 appartamenti su 10 non abitati da residenti. Nemmeno la fantasia di Dick sarebbe arrivata a tanto.

Negozio in via Garibaldi dove si possono comperare vitamine per body builder e chitarre. No comment.

Via Garibaldi e tutto Castello Alto sono forse le ultime enclave che rappresentano quello che doveva essere Venezia negli anni ’70, ovviamente anche qui la presenza dei turisti si fa sentire, ma in minor misura.

Tra gallerie d’arte affiancate a negozi tradizionali (ora merce rarissima), gli abitanti veneziani doc e i giovani artisti convivono in pace, uniti dallo stesso ritmo lento di chi cammina sempre e non usa mai la macchina. In un certo qual modo via Garibaldi potrebbe essere la Brooklyn di Venezia.

Per non sbagliarsi, la folkloristica barca-fruttivendola ha già adeguato i prezzi al quartiere di New York. A dire il vero il fatto che esponga la merce non su cassette di legno, ma su cuscini di velluto nero, avrebbe dovuto mettermi in allarme fin dai primi giorni.

Abituato com’ero al silenzio del mio vecchio appartamento (terzo piano affacciato su una serie di tetti e giardini, contro il primo piano di questo) i primi giorni sono stati difficili, a parte una specie di scuola di salsa e merengue a circa 4 metri dalla finestra di camera mia, che da un lato mi allietava gli occhi con giovani ragazze in hot shorts ma dall’altro massacrava le mie orecchie con sessioni infinite di reggeaton e musiche simili, tutto il vicinato generava rumore.

Dalle persone della zona, che hanno l’abitudine (gioiosa) di salutarsi più volte a metri di distanza, creando una specie di guida sonar per me che dall’alto li sentivo (più forte è la voce più lontano è il destinatario del saluto), fino ovviamente agli spazzini, che dalle 8 del mattino ripetono l’urlo SPAAAAASIIIIINOOOO!, come fossero i rais delle tonnare siciliane e noi, o meglio le nostre spazzature, tonni in attesa di essere raccolti.

Ma un giorno di tarda primavera, durante uno di quei pomeriggi caldi, scanditi dallo frinire delle cicale, nel totale ozio della controra ho percepito un rumore strano, qualcosa di nuovo e antico al tempo stesso, che ho decodificato a fatica, una specie di madleine proustinana sonora: il rumore dei bambini che giocano, un suono che oramai avevo dimenticato.

Niente di straordinario, intendiamoci, giusto qualche ragazzino che correva in bicicletta o che giocava a calcio, con un pallone di plastica e con addosso la maglietta della Juventus (sic). Tutto qui, ma pure troppo rispetto alle mie aspettative, già avevo notato l’assenza di campanon disegnati col gesso sui mazegni, di certo non mi aspettavo di vedere bambini rincorrersi giocando a ghè, oppure sorprenderli immobili aspettando “un, due, tre …stella”. Figuriamoci giochi più antichi come “Piera alta”, una specie di ghè con delle safe zone determinate da scalini o aree sopra elevate (piere alte, appunto), oppure la variante colorata di “strega comanda color” per finire con il mio preferito: “Napoleone dichiara guerra a…”, che prendeva in giro le manie guerrafondaie del generale corso. Chissà se fra tutti gli Stati che nel gioco “Napoleone” potrebbe invadere qualcuno abbia mai pensato di inserire Liberland, ufficialmente conosciuta con il nome di “Libera Repubblica di Liberland”.

Liberland è il progetto folle di un tizio ceco (tale Vít Jedlička) che il 13 aprile 2015 ha deciso di rivendicare come propri e di fondarci appunto la Libera Repubblica di Liberland circa 7 chilometri quadrati di una pianura alluvionale, disabitata ovviamente, sulla riva del Danubio, contesa tra la Croazia e la Serbia . Ma questa è un’altra storia che meriterebbe un post tutto suo, sappiate comunque che è possibile richiederne la cittandinanza, non che abbia chissà quale utilità.

Bandiera (e gran parte) dello stato di Liberland.

12 novembre 2019. L’acqua alta sta salendo oltre il previsto, il vento di scirocco soffia a quasi 100 km all’ora. In riva dei Giardini alza onde di un paio di metri, grosse e cattive, questa volta la Laguna si è incazzata per davvero, in fondo dopo anni di soprusi e violenze chiunque l’avrebbe fatto. L’acqua scorre come un fiume sotto le mie finestre, si infila fra le crepe delle mura, supera paratie invadendo case e magazzini, sento le persone che abitano a pianterreno chiamarsi tra di loro, si aggiornano sulle previsioni, si fanno coraggio l’una con l’altra. In fondo alla strada la luce accesa del laboratorio del panifico si riflette sull’acqua che ormai lambisce la barriera che, per adesso, le blocca l’ingresso. Ci compero il pane ogni tanto, ed è li che ho rivisto i sacchetti con il pane prenotato già imbustato con i nomi dei destinatari scritti a biro.

I sacchetti del pane prenotato con il nome dei destinatari.

La marea non si ferma, 10 minuti dopo la luce del fornaio si spegne, anche lui si è arreso, l’acqua ha invaso il suo negozio. Lo sento nominare Dio, mai così invano, esce in strada e si appoggia con la schiena sul muro, sembra uno dei tre (o quattro?) moschettieri con quegli stivali da pescatore che gli arrivano a metà coscia, per un attimo il  viso gli si illumina alla luce della fiamma del suo accendino. Vorrei scendere e abbracciarlo, e dirgli che il fumo fa male, così, per sdrammatizzare, ma non mi sembra il caso.

13 novembre 2019. L’acqua alta questa volta è stata feroce e violenta, tutta la zona è stata allagata; negozi, ristoranti, bar, decine di case. Passato lo shock iniziale tutti si sono messi a sistemare, a pulire, a cercare di tornare alla normalità. Ci riusciremo anche sta volta, come sempre, con umiltà, confermando la retorica che vuole i veneti (e quando mai un vero veneziano si è sentito Veneto) gente che si rimbocca le maniche, sperando che la laguna ci perdoni.

Quel che resta di una camera da letto dopo l'acqua alta
Quel che resta di una camera da letto dopo l’acqua alta

Tutto tornerà come prima, a parte una cicatrice in più. E questa primavera aspetterò il mio piccolo miracolo, semplicemente una manciata di bambini che fanno la cosa più bella del mondo, giocare per strada, mentre io, the man in the high castle, li ascolterò di nascosto, per non interrompere questa specie di apparizione magica, sapendo che potrebbero essere gli ultimi bambini che sentirò da queste parti.

Ecco, forse Castello Alto è l’unico posto di Venezia, con un paio di eccezioni, dove il rumore dei trolley trascinati dai turisti viene sovrastato da quello fatto dai bambini che giocano in strada, che questo possa essere il regalo che faremo alle prossime generazioni.

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