L’effetto farfalla

il

John Hillerman/Yelburton: Oh yes. Hollis was the best department head the city’s ever had. My goodness, what happened to your nose? 

Jack Nicholson /Gittes (smiles): I cut myself shaving. 

John Hillerman/Yelburton: You ought to be more careful. That must really hurt. 

Jack Nicholson /Gittes: Only when I breathe.

Chinatown, Roman Polanski, 1974

Jack Nicholson con il naso tagliato e incerottato, in “Chinatown”

Ho iniziato a scrivere questo post lo scorso inverno, diciamo che mi sono fatto prendere dalla fretta. L’argomento principale è la siccità, un tema che, almeno in Italia, lo scorso inverno non sembrava in cima alla lista di priorità. Ma come dice il meraviglioso film di David Mamet, “Things change”, ed eccoci qui davanti all’estate più arida a memoria d’uomo (ammesso che finisca il post prima delle alluvioni di fine luglio).

Wikipedia descrive l’effetto farfalla come: “una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.” 

Per farla semplice, una piccola cosa come il battito di ali di una farfalla può influenzare il clima di una nazione distante migliaia di chilometri. Oppure, ancora più semplicemente, un paio di fattori in apparenza scollegati fra di loro portano a un effetto inatteso. 

Non mi ricordo come fosse arrivato a casa. Forse mi fu portato da mio padre a fine anni ’70, di ritorno dal suo primo viaggio in California, dove aveva passato quasi due mesi ospite del suo amico fraterno Gianni che a Los Angeles aveva trovato la fortuna.

Oppure fu proprio lo “zio Gianni” che me lo regalò, in una delle sue innumerevoli (e quasi sempre non annunciate) visite a Venezia. 

Quasi ogni anno senza alcun preavviso lo zio d’America suonava il campanello di casa annunciandosi come “Gesù Cristo”. Veniva sempre accompagnato da una sexy fidanzata occasionale, ma soprattutto non si dimenticava mai di portare una valigia extra, piena di magliette e gadget. Mi ricordo ancora quell’anno in cui arrivò con “Simon” un gioco mai visto prima e ovviamente straordinario per noi (al solito vi risparmio la gugolata; Simon è un gioco a forma di disco volante, delle dimensioni di una torta fatta in casa, fornito di 4 pulsantoni di colori diversi che si accendendono in sequenze casuali e che i giocatori devono ripetere senza sbagliare).

Simon!

Un’altra volta ci riempì di tutta una serie di gadget elettorali di Jimmy Carter, prima di convertirsi, dopo soli quattro anni al “reaganesimo” militante.

Ecco, fu probabilmente l’anno dei gadget a forma di arachidi legati al presidente georgiano (inteso come governatore dello Stato americano della Georgia) che mio zio mi portò un meraviglioso skate long board, uno di quelli fatti in legno, con una forma lunga affusolata, tipo surf vecchio stile che a Venezia nessuno aveva mai visto prima di allora.

Non che fare skate a Venezia fosse (sia) così semplice, infatti i “masegni” che rivestono quasi tutte le strade non offrono una superficie liscia sulla quale far scivolare le piccole ruote di poliuretano.

Dopo qualche uscita sotto casa, giusto per farmi invidiare dai miei amici, lo skate finì a prendere polvere sopra l’armadio in camera dei miei, con le quattro ruote all’aria, come un gigantesco insetto morto stecchito. 

Rimase lí per anni, fino a quando, impietosito dalla sua triste vita polverosa, lo regalai a dei cugini più piccoli. Purtroppo la tempistica non ci fu di molto aiuto: infatti la skate-mania in Italia, prima del ritorno di fiamma degli ultimi anni, era ai minimi storici ad inizio anni ’90 e credo che quel meraviglioso skate non fu usato quanto avrebbe meritato.

Un giovanissimo Jay Adams

Negli Usa, più precisamente in California, la skate-mania era esplosa ad inizio degli anni ’70 (anche se la sua invenzione vera e propria risale al decennio precedente), senza che mai passasse realmente di moda. Quello che a fine anni ’50 era nato come un modo di surfare sulla strada quando le onde dell’oceano erano troppo rabbiose per farsi cavalcare, era diventato improvvisamente un simbolo di ribellione, un modo per sfidare le autorità, l’espressione più semplice ed innocua di anarchia, e tutto questo per merito degli Z-Boys di Dogtown (una zona di West Los Angeles), un gruppo di ragazzini ribelli, in alcuni casi letteralmente scappati di casa, che riuscirono a creare un movimento che negli anni ha influenzato il mondo della moda, della grafica, dei video e della fotografia. Ma senza il genio di un architetto finlandese nato a fine ‘800 niente di tutto ciò sarebbe stato possibile.

Stacy Peralta. il “Michael Jordan” degli Z-Boys

Ma procediamo con ordine. 

A parte le terre rare e (forse) gli idrocarburi, la materia prima per la quale si combatteranno le prossime guerre sarà l’acqua, una di quelle risorse che in Italia (a parte quest’estate) sembra essere inesauribile. Certo, la riduzione drastica e addirittura la scomparsa di molti dei ghiacciai delle Alpi (colpa del riscaldamento globale, ma se lo dite siete dei pazzi), avrebbe dovuto far scattare un campanello d’allarme già da un paio di decenni, ma si vede che negli ultimi anni siamo stati distratti da cose più importanti e urgenti, tipo i sacchetti in plastica biodegradabile imposti nei reparti frutta dei supermercati di tutta Italia oppure cose simili.

Siamo come l’orchestra del Titanic, la terra sta tranquillamente navigando verso un futuro di siccità e per noi questo non sembra essere un problema, ovunque nel mondo (almeno in quella parte dove ce n’è parecchia) si continua ad usare l’acqua in totale allegria, con acquedotti colabrodo e con sistemi di irrigazione che arrivano a disperdere oltre il 70% del totale utilizzato.

Vi siete mai chiesti quanta acqua si consuma per produrre una cosa semplice e leggera, come una t-shirt di cotone? Stando allo studio della National Geographic Society, la maglietta con il logo della “Sagra del mosto di Sant’Erasmo”, che sicuramente ancora usate come pigiama, ha divorato in tutto il suo ciclo di vita (produzione del cotone, fabbricazione, lavaggi etc) circa 2700 litri d’acqua, cioè più o meno quanta ne beve un uomo adulto in 900 giorni. 

L’autore del post con circa 2700 litri di t-shirt addosso (per Faber questo ed altro)

La siccità è un problema antico, citata più volte addirittura nella Bibbia, come ad esempio in “Giacomo 5:17”, quando un tale Elia prima prega per non far piovere sulla terra per oltre tre anni e poi cambia idea e prega per l’opposto. Senza scomodare le sacre scritture, la siccità è una piaga che colpisce gli uomini da sempre. Qualsiasi regno, nazione o semplice popolo ha nella sua memoria una siccità storica. Gli Stati Uniti su tutti, data la vastità e la difformità del suo territorio, hanno subito il flagello della siccità di frequente nella sua storia recente e non solamente nel sud ovest ma anche nelle grandi pianure del Nord America, che tra il 1929 e il 1934 furono colpite da una siccità quasi assoluta, che causò anche continue tempeste di sabbia, non a caso quel quinquennio è noto come the “Dust Bowl”.

Storicamente è la California lo Stato americano più flagellato dalla siccità, e probabilmente il periodo più duro è stato l’inizio degli anni ’70.

Forse proprio per questo, nel 1974 Roman Polanski gira un film ambientato nel passato (precisamente nel 1937) un giallo-noir (troppi colori? Sorry), che in pure stile hard-boiled (no, non è il genere pornografico preferito dai concorrenti di Masterchef) racconta una storia torbida d’amore e di affari. Mentre sullo sfondo si lotta per il comando delle risorse idriche della zona di Los Angeles, un problema che evidentemente era ritornato potentemente attuale a metà anni ’70.

Il plot iniziale gira attorno alla figura dell’ingegnere Hollis Mulwray, dirigente del Dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica di Los Angeles. L’investigatore privato Gittes (Jack Nicholson) viene incaricato dalla moglie (presunta ndr) di pedinarlo per scoprire il suo tradimento, da qui la storia si complica abbastanza.

Il film, lo so che l’avete capito, è “Chinatown”, forse il capolavoro di Polanski, che si ispira in qualche modo alle vicende dello sfruttamento idrico della Owens Valley. Una vera e propria guerra combattuta tra il 1907 e il 1929 per imbrigliare le acque di quella valle e convogliarle, attraverso gigantesche opere di ingegneria idraulica verso una Los Angeles in totale espansione e sempre più assetata.

Una guerra alla fine vinta dalla città e persa dalle aziende agricole della Owens Valley (scusate lo spoiler).

Ora, cercate di seguirmi, ma per capire “l’effetto farfalla” di questo post dobbiamo tornare alla siccità che colpì la California del Sud a metà degli anni ’70. 

Alvar Aalto e consorte

Probabilmente vi siete persi, ma all’inizio avevo scritto della skate-mania, però per spiegare le evoluzioni degli Z-Boys a questo punto dobbiamo introdurre nella narrazione il primo archistar della storia, ovvero l’architetto finlandese Alvar Aalto, nato ad Helksinki nel 1898.

Poco più che quarantenne e già architetto affermato, nel 1939 Aalto riceve l’incarico di ristrutturare Villa Mairea a Noormarkku in Finlandia. Visto che più o meno ha carta bianca decide di inserire nel parco antistante la casa una piscina dall’innovativo disegno a forma di rene, con il fondale di varie profondità e soprattutto con la superficie curva, una specie di ciotola, rinunciando come faceva spesso per i suoi progetti, agli angoli a 90 gradi. 

Aalto, in quanto archistar, è un architetto di successo richiesto in tutto il mondo, e sempre pronto a collaborare con nuovi colleghi, Quando arriva negli Stati Uniti conosce e diventa amico dell’architetto paesaggista Thomas Church che pochi anni dopo, nel 1948, si occupa del Donnell Garden a Sonoma in California. 

Memore delle serate passate a parlare di architettura con l’amico/maestro finlandese, regala ai coniugi Donnell la meravigliosa piscina a forma di rene e dal fondo a ciotola ideata da Aalto nel 1939. A breve questa bizzarra piscina dalle forme morbide e arrotondate, diventa lo standard per le case dei nuovi ricchi californiani, venendo replicata ovunque. 

Come detto, a fine anni ’50, sempre in California, si inizia a diffondere lo skateboard, una specie di mini tavola da surf poggiata su quattro piccole rotelle che permette ai giovani surfisti di scivolare sui marciapiedi di cemento lungo le spiagge quando non possono cavalcare le onde dell’oceano. Ma sarà appunto solamente a metà anni ’70, con l’arrivo di una siccità straordinaria e con l’introduzione delle prime rotelline in poliuretano, che lo skate esplode e diventa un fenomeno di costume per i teenager. 

Jay Adams adulto, poco dopo essere uscito di galera e poco prima di morire

NON HAI SMESSO DI ANDARE SULLO SKATEBOARD PERCHÉ SEI DIVENTATO VECCHIO. SEI DIVENTATO VECCHIO PERCHÉ HAI SMESSO DI ANDARE SULLO SKATEBOARD. JAY ADAMS 

Ci state arrivando anche voi, vero? 

Dunque, la siccità straordinaria di quel periodo rende l’acqua improvvisamente ancora più preziosa nella contee della California del Sud, incluse quelle di Los Angeles, dove le piscine vengono svuotate mettendo a nudo il loro fondale curvo.

Queste curve catturano l’attenzione di un gruppo di ragazzini perditempo, quasi tutti con situazioni famigliari alle spalle non proprio da “Famiglia Cristiana”, che si fanno chiamare gli Z-Boys. Nelle loro scorribande non resistono alla tentazione di far scivolare i loro skate in queste ciotole fuori scala, ovviamente senza autorizzazione.

La storia di questi teenager, di Jay Adams e gli Z-Boys e di come inventarono lo skate moderno nelle piscine vuote di Santa Monica e Venice, è stata raccontata anche al cinema, sia con un film che con un documentario, girato proprio da uno degli ex ragazzi, Stacy Peralta. Furono loro a trasformare un passatempo per adolescenti in uno sport vero, tanto da essere presente nelle ultime olimpiadi svolte in Giappone.

Probabilmente se non ci fosse stato Alvar Aalto, il suo rifiuto per gli angoli retti, e la pessima gestione delle acque nel sud della California, lo skate come lo conosciamo oggi non sarebbe mai esistito.

Aspettiamo con ansia quale nuovo sport farà nascere la desertificazione del fiume Po’, magari una specie di gioco delle bocce in discesa.

Non ci resta che aspettare, nel frattempo però cercherò di comprare meno t-shirt.

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