It’s such a sad old feeling
the fields are soft and green
it’s memories that I’m stealing
but you’re innocent when you dream
Innocent when you dream – Tom Waits
“I learned this song when I was a child….it’s a lie”. Tom Waits inizia così “Innocent when you dream”, in una delle versioni live che si può trovare su You Tube, continua per un po’, raccontando aneddoti poco probabili fino a quanto inizia a cantare, con quella voce da orco tabagista, di campanili, prati soffici e verdi, e di illusioni.
Il brano si trova in “Frank’s wild years“, uno dei vari album capolavoro che Tom Waits sfornò negli anni ’80, la canzone viene inserita in due versioni, quella standard (Barroom) nel lato A del vinile, e quella registrata nel 78, quasi 10 anni prima, nel lato B.

Immagino che il pezzo dovesse piacergli molto, se a distanza di quasi 10 anni, in piena trasformazione artistica, lo ripesca e lo inserisce in uno dei suoi lavori più visionari, definito nel sito storiadellamusica.it come “l’opera definitiva del Tom Waits-psicotico”.
“Frank’s wild years” è stato anche il mio primo album di Tom Waits, un inizio un po’ in salita, visto che fino ad allora conoscevo solamente i primi, classici suoi lavori.
Comunque “Innocent when you dream“è uno di quei brani che effettivamente ti si appiccica addosso, per non andarsene più. Suona come una ninna nanna per alcolisti romantici, con quelle immagini cantate da Tom Waits che sembrano uscire dalle casse dello stereo per materializzarsi davanti ai tuoi occhi.
Non ho idea del motivo che ha spinto Tom Waits ad iniziare quel brano live con tutta la pantomima sulle bugie, forse la voglia di mettere la mani avanti, di preparare il pubblico alle illusioni che la sua musica crea.
Io ho sempre pensato che una bugia sia come una partita di tennis, bisogna almeno essere in due perché funzioni: chi la racconta e chi ci crede, tutti partecipi alla truffa, truffati e truffatori, ma le motivazioni però possono essere diverse.
Si racconta una bugia per amore, per convenienza, per pigrizia o stupidità, oppure semplicemente per il gusto di farlo. Chi ci crede invece di solito lo fa perché lo vuole, perché, anche se improbabile, preferisce la storia raccontata dalla bugia alla realtà.
Credi all’amore della tua vita, che ti guarda e ti dice che le cose si sistemeranno, mentre sai che tutto si sta sfasciando, e ti resteranno un po’ di ricordi e un mucchio di macerie per ricominciare, sempre che tu ne abbia la voglia.
Credi al dottore che dopo aver visitato tuo padre ti racconta che andrà tutto bene, ma quando lo accompagni alla porta, scorgi dal suo sguardo che non è così, e vorresti non averlo capito, e speri soprattutto che tuo padre non l’abbia capito.
Credi che la meringata sia un dono divino, che non faccia male, e una volta alla settimana, come in un rito laico, te ne mangi 4 etti (in questo caso, nemmeno troppo raro, chi racconta la bugia e chi ci crede sono la stessa persona).
Come ogni bambino anche io amavo gli animali, quando avevo circa 10 anni un mio cugino, molto più grande di me (al punto che aveva un figlio quasi della mia età) mi disse che, il giorno dopo, sarebbe riuscito a portare un cavallo sotto casa mia.
Un cavallo in carne ed ossa, a Venezia! Incredibile, ero il bambino più fortunato del mondo.
Confidai quello che doveva essere un segreto ad un paio di miei amici, ai quali diedi appuntamento per la mattina successiva.
Ero così elettrizzato che quella notte dormii a stento. Il giorno dopo, alle 7 del mattino, eravamo già sotto casa mia, mio cugino disse di non muoverci e di aspettare un momento, che sarebbe tornato subito con il cavallo.
Dopo un paio di minuti arrivò scuro in volto, ci disse che il cavallo era scappato, e ci portò a vedere le briglie ancora attaccate ad un portone poco lontano.
La mia delusione fu enorme, ci misi un po’ (forse troppo per la mia età) a capire che il cavallo non era mai esistito, e che si era trattato semplicemente di uno scherzo. Feci la figura dello stupido credulone, ma il mio desiderio di accarezzare un cavallo, la mia voglia di credere a quella bugia, aveva annientato ogni barlume di gran razionalità.
Invece mio cugino si divertì un sacco, e tutti mi presero in giro per giorni, poveri illusi, come se loro non avessero bugie alle quali ogni giorno credere, come se le loro illusioni fossero meno illusioni delle mie.
Inutile dire che non bastò quella delusione per farmi smettere di sognare l’incontro con un cavallo tra le calli di Venezia, e anche adesso, quando cammino per la città, ogni tanto giro l’angolo di una calle apettandomi una sorpresa.
Quel mio cugino lo incrocio ancora, non credo nemmeno si ricordi più dello scherzo “geniale” che mi fece, in compenso però, a giorni alterni, esce dall’edicola con “Il Giornale” e “Libero” belli in evidenza sotto il braccio.
Tom Waits cantava di visoni alcoliche (più o meno), io da ragazzino avevo un sogno grande come un cavallo, ma Feltri e Belpietro, che sogno gli potranno mai raccontare?