“Keep, ancient lands, your storied pomp!” cries she
With silent lips. “Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tost to me,
I lift my lamp beside the golden door!”
Iscrizione sulla base della Statua della Libertà
L’altro giorno mi sono improvvisamente reso conto che il prossimo 16 agosto saranno esattamente quarant’anni dalla morte di Elvis Presley, ed esattamente trent’anni dal mio primo viaggio negli USA.
L’autunno di quell’anno passai cinque settimane sugli autobus della Greyhound, girovagando per il Nord America con zaino e macchina fotografica, non male per un ragazzo di 18 anni, al punto che, con un esordio del genere, al tempo mi sarei aspettato una vita fatta di viaggi e scoperte.
Le cose non sono andate esattamente così. Certo, qualche soddisfazione me la sono presa, come sanno i rari (ma intelligentissimi) lettori di questo blog, ma non sono diventato il Chatwin di Cannaregio.
Quelle cinque settimane con il Greyhound restano però il Viaggio con la “v” maiuscola, per anni ho snocciolato le tappe di quel tour come i ragazzini della mia generazione (ancora) recitano la formazione dell’Italia dei Mondiali del 1982 (per gli smemorati: Zoff, Gentile, Cabrini, -pausa- Oriali, Collovati, Scirea, -pausa- Tardelli, Rossi, Antonioni e Graziani, quest’ultimo pronunciato con poca convinzione). Ogni tanto riguardo sulla mappa le città visitate, e mi rammarico di aver saltato (per motivi di tempo) tutte le città della costa orientale. Sono riuscito a spingermi fino ad Athens, in Georgia, ma poi sono dovuto tornare verso ovest, saltando Washington, New York, Philadelphia e Boston.
Ho visto l’alba sul deserto dell’Arizona, sono passato sotto il gigantesco arco di Saint Louis, ho preso l’ascensore più lungo della mia vita (quello della Sears Tower di Chicago, ora Willis Tower) con delle All Star di tela ai piedi inzuppate di neve e sono entrato nella monumentale chiesa dei Mormoni a Salt Lake City durante la loro “messa” domenicale. Però mi sono perso l’arco di marmo a Washington Square di New York, non ho visto la facciata del museo di Brooklyn e nemmeno la gigantesca statua di Lincoln a Washington.

La storia che vi sto per raccontare riguarda proprio questi monumenti di marmo, è una storia strana, fatta di emigrazione, duro lavoro, successo incredibile, finisce in modo silenzioso, viene dimenticata e poi riscoperta.
Si tratta di una storia che percorre tre secoli, parte dall’Italia a metà ‘800, finisce nel 1945 senza fare scalpore, ma come un fiume carsico percorre più di cinquant’anni sepolta nel Bronx e riemerge alla vigilia nel nuovo millennio.
Ma andiamo con ordine, partiamo dall’inizio.
Giuseppe Piccirilli nel 1876 ha trentadue anni, una moglie e sette figli, sei maschi e una bambina, l’ultima nata. Abita a Massa Carrara dove è arrivato nel 1862 dopo aver combattuto tra i Garibaldini, dovrebbe essere nato a Roma oppure, visto il cognome, da qualche altra parte più a sud (forse Napoli, dato che uno dei figli viene chiamato Masaniello).
Di lavoro fa lo scultore di marmo, cosa comune nella città toscana. La famiglia è numerosa e probabilmente il lavoro è appena sufficiente a mantenere tutti, perciò nel 1888 decide di attraversare l’oceano e si stabilisce a New York, più precisamente nel distretto di Mott Haven, nel Bronx, in una casa sulla 142esima strada. Nello stesso edificio pochi anni dopo apre con i suoi 6 figli uno studio-laboratorio dove scolpisce statue, sia su disegni dei committenti che su proprie creazioni, ideate principalmente da Attilio e Furio, il secondo e il terzo figlio, fra tutti i più talentuosi.
I Piccirilli Brothers sono bravi, molto bravi, e le commissioni arrivano non solo da privati, ma anche dalle amministrazioni pubbliche che vogliono abbellire le loro città con sculture in marmo come le succedeva per le grandi capitali europee.
Il primo lavoro che li porta alla ribalta è L’Arco di Washington Square, iniziato nel 1895, ma sono tutti i primi anni del ‘900 che regalano soddisfazioni enormi ai fratelli, dalla facciata della Borsa di New York, al Museo di Brooklyn fino al monumento più famoso, l’inquietante e gigantesco Lincoln seduto che si trova a Washington.
Le richieste di lavoro arrivano di continuo, artisti affermati portano i loro modellini allo studio sulla 142esima strada e i fratelli Piccirilli li riproducono in scala 1:50. Furio e soprattutto Attilio diventano delle celebrità nel campo della scultura, Attilio fra l’altro è uno promotori dei della scuola d’arte Leonardo da Vinci, creata apposta per aiutare a formare i giovani artisti delle classi meno abbienti di New York.
Attilio diventa amico del leggendario sindaco di New York Fiorello La Guardia, che più tardi gli affiderà il compito di scolpire i monumenti funerari per la moglie e per la figlia.
Con la salita al potere di Mussolini l’amore degli amministratori americani nei confronti dei sei fratelli italiani diminuisce, inoltre la crisi del ’29 non aiuta le grandi opere. Di certo l’amicizia con La Guardia non procura ai fratelli Piccirilli alcun favoritismo, visto quanto fosse integerrimo il sindaco italo-ebreo-americano (chiedere alla nipote ungherese, figlia della sorella maggiore, scappata dal campo di concentramento di Ravensbruck con la madre e che dovette fare tutta la trafila per ottenere il visto per gli USA nel 1947).
Nel 1945 Attilio muore e nonostante almeno 4 fratelli siano ancora vivi, pochi mesi dopo lo studio chiude. In qualche modo termina un epoca, probabilmente la ricostruzione dell’Europa e del Giappone, la voglia di “futuro”, distraggono l’opinione pubblica, o forse semplicemente i gusti sono cambiati, nessuno ha più bisogno di statue e monumenti di marmo.
Ecco, l’incredibile epopea dei 6 fratelli (e un padre) venuti dalla Toscana dura poco più di mezzo secolo e scompare fra le pieghe della storia.
Ma come a volte capita per le storie de Il Poltronauta, una specie di happy end è alle porte.
Nel 1998 Bill Carroll, un ex insegnate di matematica in pensione scopre che l’enorme statua del Lincoln Memorial è stata costruita in uno studio sulla 142esima strada di Mott Haven, a pochi passi da dove è cresciuto.
Incredulo inizia ad investigare assieme alla moglie, scopre che lo studio non c’è più, che è stato demolito e al suo posto adesso c’è un Tempio dei Testimoni di Geova, domanda in giro, il nome di quei sei fratelli lo sa già ma non riesce a trovare nessuna documentazione scritta, nessuna pubblicazione. L’ex professore è un tipo testardo, essendo in pensione tempo a disposizione ne ha parecchio, in più per lui, cresciuto nel Bronx, è una questione di orgoglio.
Poco dopo, nel 1999 incontra un artista in pensione di quasi ottant’anni, tale Jerry Capa (nato, tenetevi forte, Gennaro Capacchione), che quando era teenager era stato amico/ragazzo di bottega proprio di Attilio Piccirilli, e che è probabilmente l’ultima persona in vita che ha conosciuto personalmente i fratelli Piccirilli, li descrive come persone timide, dei semplici lavoratori che rifuggivano dalla gloria e dalle luci della ribalta.
Jerry è ben felice di poter ricordare lo studio dei Piccirilli Brothers all’ex insegnante, al punto che gli scrive appositamente una raccolta di memorie (in corsivo, potete leggerla qui).
Ad inizio degli anni 2000, grazie alla testardaggine di Bill Carroll i media iniziano a parlare dei Piccirilli Brothers, nel 2001 fa in modo che la targa con il nome dei fratelli che si trova sul Maine Memorial (altra statua pubblica) venga riscritta, più grande e più visibile.
Dopo oltre cinquant’anni di silenzioso anonimato, finalmente i fratelli Piccirilli ricevono un po’ di quella gloria che da vivi avevano sempre voluto evitare.
Non credo riuscirò più a viaggiare come feci trent’anni fa, certo mi piacerebbe andare a New York, oppure a Washington, e se mai lo dovessi fare mi piacerebbe accarezzare le statue di marmo dei fratelli Piccirilli, sentire sulla mia mano la loro fatica, la loro modestia.
Che poi è strano immaginare che se qualcuno avesse bloccato l’emigrazione della loro famiglia probabilmente molti di quei monumenti oggi non ci sarebbero.
Una bellissima storia, felice di aver scoperto il tuo blog!
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Grazie mille Vincenzo! 🙂 sono felice che ti stia piacendo il mio blog. Spero di continuare così
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Come al solito ci racconti storie bellissime e rare.ma dove le trovi?!
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Grazie! Questa l’ho trovata per sbaglio, cercando altro on line 🙂
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