“Tre, che po in en-bi-ei i dise “taimaut”, ma xe ea stessa roba”
Anonimo ragazzino, Patronato Madonna Dell’Orto, Venezia, inizio anni ’80
Qualche settimana fa mi sono trovato fra le mani la storia incredibile di uno sfortunato giocatore di basket oramai dimenticato, una di quelle storie che merita di essere raccontata e tramandata.

Dato che l’argomento principale era il basket ho pensato che sarebbe stata cosa buona e giusta farla uscire in concomitanza con il Torneo dei Sestieri™ (d’ora in avanti TdS™). Perciò ho sentito l’eminenza grigia che lavora nelle retrovie dell’organizzazione e gli ho proposto il pezzo, con il miraggio di scroccare un paio di birre alla mia prossima visita al Pattinodromo del Lido di Venezia.
L’idea è piaciuta e mi sono messo all’opera. Procedeva tutto per il meglio fino a quando, incrociando i dati in mio possesso con quelli trovati on line, mi sono accorto di alcune discrepanze e dunque mi sono bloccato, visto che non avevo il tempo materiale per dipanare la matassa.
La buona notizia è perciò che qualsiasi cosa leggiate su Il Poltronauta ha sempre una ricerca alle spalle, la cattiva invece è che la possibilità di far uscire un mio post prima della fine del torneo stava evaporando (esattamente come il miraggio delle due birre). Certo, avrei potuto proporre agli amici del TdS™ di riciclare uno dei pezzi scritti in questi anni sul basket (a proposito, se li avete persi cliccate su questi link: La Reyer oppure La Misericordia), mi sembrava l’unico modo per poter salvare la faccia.
Poi mi è venuto in aiuto il buon Paolo Villaggio, la cui scomparsa (il primo che dice “prematura” si becca 3 giornate di squalifica!) ha aperto tutta una serie di scatoloni, per anni chiusi nella soffitta del mio cervello.
Partiamo dal comico genovese (quello che non ha fondato un MoVimento).
Per la mia generazione Paolo Villaggio è soprattutto il ragionier Ugo Fantozzi, niente di più e niente di meno. Per quelli prima di me Villaggio è stato anche, se non principalmente, un giovane Giandomenico Fracchia, oppure uno stravagante Professor Kranz, e altri personaggi ancora che facevano impazzire la TV in bianco e nero. Per le generazioni più recenti Paolo Villaggio è stato qualcos’altro ancora, ma non importa, per me sarà sempre il ragionier Ugo Fantozzi, visto decine di volte a casa di Carlo, un mio compagno delle scuole superiori.
Infatti, appena ne avevamo l’occasione (sciopero, mancanza dei professore, acqua alta, cavallette, carestia) assieme ad altri compagni di classe ci si dirigeva a casa di Carlo, che tra le sue tante doti ne aveva tre di eccezionali:
1) I genitori impegnati nel lavoro e dunque fuori casa;
2) Un salotto piuttosto ampio;
3) Un rarissimo (per l’epoca) videoregistratore.
Appena sistemati sul divano e per terra, in religioso silenzio, partiva la videocassetta di “Fantozzi” oppure, visto che era il nostro film preferito, “Il Secondo tragico Fantozzi”, a volte riuscivamo pure a vederli tutte e due in un’unica mattinata.
Aperto lo scatolone delle proiezioni mattutine a casa del mio amico, quello successivo è stato lo scatolone di “Basket Music”, immagino che questo punto molti di voi si saranno persi (non vale usare Google). Dunque, procediamo con ordine, “Basket Music”, solita traduzione orribile di un titolo di un film, che in originale si intitolava “The fish that saved Pittsburg”, era l’altra videocassetta che si alternava alle proiezioni di Fantozzi a casa di Carlo.

La trama del film è abbastanza strampalata, racconta dei “Pythons” di Pittsburg, una immaginaria squadra NBA che sta battendo ogni record in tema di sconfitte e che sembra aver perso ogni speranza di invertire la rotta, fino a quando il ragazzino aiutante del team si rivolge ad un’astrologa che trova la soluzione (che si rivelerà vincente): tutti i giocatori devono essere del segno dei Pesci. Così, nonostante le reticenze iniziale della star della squadra, vengono assoldati giocatori nati solamente dal 20 Febbraio al 20 Marzo, la squadra addirittura cambia da Pythons a Pisces e finalmente iniziano a vincere. Il tutto condito da musica dance (da qui l’orribile titolo della versione italiana) tipica di fine anni ’70. Il film è abbastanza un pacco, però l’attore che interpreta la star della squadra è sua maestà Doctor J (non a caso nato il 22 febbraio), indiscussa star anche della NBA reale di quegli anni, questo a noi bastava, e rendeva giustificate le continue proiezioni a casa di Carlo.
Non ho memoria di particolari doti recitative di Julius Erving, e nemmeno il film mi ha lasciato ricordi indelebili, l’unica scena che mi ricordo chiaramente è quella nella quale Doctor J esegue una spettacolare schiacciata senza apparente sforzo, nonostante indossasse il cappotto. E credo che tutto sommato ci riuscirebbe pure adesso, dopo 9 figli (una, illegittima, diventata pure top 20 nel rank mondiale del tennis femminile) e i suoi capelli bianchi. A proposito, nel caso riusciate a trovare una copia di “Basket Music” fatemi un fischio, mi piacerebbe rivederlo.

Il terzo scatolone, che mi sono ritrovato tra le mani dopo essermi ricordato del film di Doctor J, riguarda sempre il basket, questa volta non è un film, ma una serie TV (all’epoca si chiamavano telefilm) che arrivò in Italia un po’ in ritardo rispetto all’uscita americana, ma che tenne incollati al piccolo schermo tutti i miei coetanei per molti pomeriggi.
La serie si chiamava “Time Out”, che ovviamente in originale si intitolava in modo diverso, cioè “The white shadow”. Anche in questa storia c’è una squadra di basket in difficoltà, questa volta però si tratta di una squadra di un liceo di una zona povera di Los Angeles, la “Carver High School” (che in realtà non esiste), frequentata da ispanici e ragazzi di colore. Il preside del liceo chiama un suo ex compagno di università, tale Ken Reeves, un gigante bianco star NBA, la cui carriera nei Chicago Bulls era stata bruscamente interrotta da un infortunio al ginocchio, a guidare la sgangherata squadra della scuola, formata appunto da una serie di ragazzi difficili, di colori diversi ma uniti dallo stesso malessere adolescenziale e dall’amore per il basket.
Ovviamente proprio il basket diventa l’unica possibilità di rivincita di quel gruppo di teenager (lasciamo perdere che, come al solito, gli attori avevano un età che andava dai 22 ai 28 anni), ed è sicuramente la parte più spettacolare di ogni puntata della serie, ma la vera forza di questo telefilm è il rapporto fra l’allenatore (nella vita reale l’attore che lo interpretava, Ken Howard, era stato davvero giocatore di basket in un liceo, uno dei pochi bianchi, e infatti “The White Shadow” era soprannome che i compagni di colore gli avevano affibbiato) e i suoi studenti, nei quali, a parte le problematiche a volte impensabili per adolescenti veneziani, sicuramente molti di noi si rivedevano.

Onestamente, a distanza di anni, non mi ricordo moltissimo della serie, giusto Coolidge, il gigantesco pivot afroamericano della squadra, e Mario Salami, il “ragazzino” italoamericano ribelle, anche lui giocatore della Carver High School.
La serie mi impressionò così tanto che fui tentato di lasciare il mio amato mondo del calcio (un amore, a dire il vero, non corrisposto) per passare a quello del basket. Mi ero pure comperato un manuale, andato perduto, dove con fumetti colorati si insegnavano i trucchi del palleggio e del tiro. Ma a quattordici anni ero troppo vecchio per iniziare a giocare a basket, me ne feci una ragione, continuai il mio rapporto con il pallone da calcio per qualche anno fino a quando, come da copione, anche lui si stancò di me.
Mentre penso a me quattordicenne che rinuncia al sogno del basket, scorro le pagine social del TdS™, e mi rendo conto che quest’anno quei pazzi degli organizzatori hanno alzato l’asticella e non contenti di coinvolgere i sestieri di Venezia, hanno deciso di inserire nel primo weekend pure un torneo Master Internazionale, con squadre over 40, (anche femminili!) e squadre over 50 da tutta Europa.
Gente tutta malata della stessa malattia inguaribile, il Basket, uomini e donne che hanno sacrificato caviglie e ginocchia a quel pallone a strisce, che hanno rosicchiato minuti al lavoro, alla famiglia, che hanno messo il Basket su altari invisibili, ai quali hanno immolato incensi e litri di birra (possibilmente a partita finita).
Uomini e donne che rincorrono l’ennesimo assist, una palla rubata, il tiro a fil di sirena. Il cui cuore batte con lo stesso sordo rumore che fa il pallone ogni volta che rimbalza, e se anche oggi lo scatto e la precisione non sono più quelli di una volta non importa, finché c’è un canestro (e una palla) la vita resta meravigliosa.
Se l’anno prossimo, fra gli over 40 vedrete un signore un po’ fuori forma, con un casco da astronauta seduto su di una poltrona a bordo campo, pronto ad entrare, molto probabilmente quel manuale di basket, che pensavo perso, è stato ritrovato.
Bella la storia e soprattutto il tuo stile nel raccontarla!
Continua a viaggiare, Poltronauta 😉
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Ooohhh, grazie! Felice che ti sia piacuto.
Ho intenzione di viaggiare tutta la vita, a costo di non dovermi muovere più dalla mia poltrona.
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