Una volta. Dieci fotografie (+ 2) per dieci ricordi (+ 2).

Di fatto il fotografare (o meglio il poter fotografare) è “troppo bello per essere vero”.
Ma è anche troppo vero per essere bello. Perciò il fotografare è sempre anche un atto di presunzione e di ribellione.

Wim Wenders – Too Shoot Pictures…

 

Hey, hey, my, my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture than meets the eye

Neil Young – Hey, hey, my, my

 

 

Questo è il mio primo post dedicato interamente alla fotografia, ed è fortemente ispirato (leggesi copiato) a qualcuno più bravo di me, come al solito.

Nello specifico si tratta di Wim Wenders, il noto regista tedesco, che anni fa scrisse un libro intitolato “Una volta”, nel quale descriveva quasi 350 sue fotografie iniziando ogni suo commento con la frase “una volta”.

Chi come me ha iniziato a fotografare nel secolo scorso, in analogico, usando pellicole e spesso sviluppando e stampando interi rullini in camere oscure improvvisate, ha sempre rincorso la “balena bianca” della fotografia, cioè quello che il maestro Henri Cartier-Bresson chiamava “Images à la sauvette” (tradotto in italiano, partendo dalla versione in inglese, come l’attimo decisivo). Cioè quel preciso istante dove l’immagine diventa perfetta, un secondo prima oppure un secondo dopo e quella perfezione sarebbe sfuggita al tuo scatto.

Forse, qualche volta, per sbaglio, quell’attimo unico, quel “rayon vert” sono riuscito ad incrociarlo ed a fermarlo in un fotogramma anche io.

Adesso, con l’avvento della fotografia digitale e ancor di più con quello degli smartphone con ottiche straordinarie, ricercare l’immagine “in fuga”, cogliere il momento perfetto è molto più facile: scatti a ripetizione, poi sistemi quella fotografia che più ti piace, un paio di filtri ed è pronta per stupire i tuoi “amici” su Instagram.

Non so voi, ma io ho l’impressione che il mondo che vediamo attraverso i social installati sui nostri smartphone sia fin troppo saturo di immagini. Tutto è già visto, niente più sorprende, adesso “per stupire mezz’ora” non basterebbe di certo un libro di storia, e forse nemmeno l’intera Wikipedia.

Ma siccome di immagini a quanto pare non siamo mai sazi, ecco i miei primi dieci (+ 2) “una volta”, fotografie scattate, sviluppate e stampate da me molti anni orsono.

Buona visione/lettura.

 

 

1. Venezia, Campo Santi Giovanni e Paolo.

Una volta mi trovavo in campo Santi Giovanni e Paolo a Venezia, uno dei più belli e “moderni” campi della città. Nello spazio di pochi metri si possono vedere la meravigliosa facciata in marmo della Scuola di San Marco (adesso ingresso degli ospedali civili), il maestoso monumento a Bartolomeo Colleoni, capitano di ventura, capo dell’esercito della Serenissima, che sul dorso di un muscolosissimo destriero ancora incute timore, e infine, fra i due, la chiesa dedicata ai santi Giovanni e Paolo, una delle più grandi di Venezia, con una facciata incompiuta, “decorata” alla base da quattro sarcofaghi che contengono i resti di ricchi nobiluomini del passato.

Avevo comperato da poco la mia prima macchina fotografica “vera”, una Yashica fx-3, che portavo sempre con me. Vidi questo ragazzino seduto sopra uno dei sarcofaghi di marmo vecchi di secoli che si trovano tra le colonne di mattoni della facciata, e che di solito vengono interpretate come traverse delle immaginarie porte che i bambini usano per giocare a calcio.

La scena mi sembrava tanto innocente quanto dissacrante, il mio “attimo decisivo” fermò lo sguardo in camera del ragazzino.

 

 

2. Da qualche parte, Lisbona.

Una volta mi trovavo a Lisbona, era uno di quei posti che volevo visitare da anni, riuscii a vederla poco prima dell’Expo che, senza nemmeno troppa convinzione, traghettò la città e con lei tutto il Portogallo, nel ventunesimo secolo. Non ho idea di come potesse essere prima di diventare una meta turistica di rilievo, in qualche modo però credo che riuscii a catturarne la magia.

Mentre l’attraversavo in tram scattai molte foto, questa è forse la più inutile: una semplice facciata di un edifico anonimo, nemmeno troppo in salute, con una corda di panni stesi, manco fossimo a Venezia.

Una volta svluppata e stampata mi accorsi che il cane che la signora teneva al guinzaglio sembrava un gigantesco ragno nero. Adesso che l’avete letto sono sicuro che anche voi non riuscirete a vedere altro.

Non c’è di che.

 

 

3. Giardinetti Reali, Piazza San Marco. Venezia.

Una volta, credo fosse Ottobre oppure Novembre, passai una mattina seduto su di una panchina nei Giardinetti Reali, un anomalo micro-polmone verde dietro a Piazza San Marco, a Venezia.

Complice la bassa stagione turistica e la giornata leggermente nebbiosa ci vidi pochissime persone. Ad un certo punto arrivò un signore elegantissimo, forse sugli ottant’anni, si tolse il trench sistemandolo con cura sulla panchina e si sedette a fianco, sempre tenedo il cappello in testa, ed iniziò a leggere il giornale, aprendolo con pochi curati gesti.

Trovai quei suoi movimenti così ricchi di grazia, così fluidi che pensai di essere davanti ad una specie di  versione veneziana del Tai-chi.

La fotografia però cattura un grammo scarso di quella poesia.

 

 

4. Esther, Venezia.

Una volta, a Venezia, incontrai due ragazze messicane. La sera accompagnavo gruppi di turisti in un tour che si chiamava “A Night in Venice”, costruito attorno a una serie di clichè sulle cose da fare a Venezia, che non mi deprimevano solamente per il fatto che l’agenzia che l’organizzava mi dava un bel po’ di soldini.

Durante una di quelle sere incontrai Esther e la sua amica (non me ne vogliate, ma non mi ricordo più il suo nome). Esther era la ragazza più bella che avessi visto fino a quel giorno: pelle ambrata, occhi verdi, stretta in un abito bianco indossato con la stessa disinvoltura con la quale portava il suo sorriso e i suoi lunghi capelli biondi.

Chiesi loro cosa avessero programmato per il giorno dopo e una volta scoperto che non avevano alcun piano mi offrii di accompagnarle in giro per la città. L’indomani le portai ovunque, dalla spiaggia agli angoli più belli della città ma con mio grande disappunto non incontrai nessuno dei miei amici. Per fortuna continuai a fotografare Esther tutto il tempo, come per provare che fosse reale.

Questa è forse la più bella delle fotografie: mi viene in mente ogni volta che sento la strofa “Your hair upon the pillow like a sleepy golden storm” della canzone di Leonard Cohen “Hey, That’s No Way to Say Goodbye”.

Credo mi diede il suo indirizzo, ma non le scrissi mai.

 

 

5. Piazza a Cento, Ferrara.

Una volta mi trovavo a Cento, in provincia di Ferrara. Il mio amico Carlo mi aveva procurato un lavoro strapagato: per circa un mese avremmo dovuto pulire il gigantesco soffitto di vetro della sede principale della Cassa di Risparmio. Con vitto e alloggio inclusi, alla fine di quelle cinque settimane avremmo portato a casa soldi sufficienti per il tutto il resto dell’anno, almeno per il budget di due cazzoni come noi.

Ovviamente con me avevo la mia Yashica fx-3. Finito il lavoro, prima di rientrare nella triste locanda dove dormivano, andavamo in giro per le vie del centro, e Cento, per chi non la conoscesse, non è esattamente estesa come San Paolo, perciò in pochi giorni l’avevamo già percorsa tutta.

Un tardo pomeriggio  arrivammo in questa piazza, leggermente defilati vidi questi due signori in bicicletta, fermi a parlare. Mi sembrarono due surfisti a cavalcioni sulle loro tavole in attesa dell’onda giusta.

Quando si è giovani anche la fantasia è più forte.

 

 

6. Da qualche parte, Cracovia.

Una volta mi trovavo a Cracovia, con un paio di amici avevo deciso di passare il capodanno in un paese dell’Est, visto che il muro dei Berlino era crollato da poco. La scelta ricadde sulla Polonia, semplicemente perchè era il posto più triste che ci potesse venire in mente.

Eravamo in un ristorante, seduti ad un tavolo che dava sulla vetrina, l’interno del locale era scarsamente illuminato, perciò riuscivamo a vedere con facilità l’esterno e  tutto quello che succedeva in strada.

Mentre cercavo di scattare una foto al mio amico che mi stava di fronte, passò un turista in apparenza giapponese (rari al periodo) che avvolto in un impermeabile alla “Sheridan” camminava leggendo una specie di stradario. Seguii lo sguardo del mio amico e, spostando l’obbiettivo della mia macchina fotografica, riuscii a cogliere l’attimo nel quale entrambe entravano nell’inquadratura.

Ecco, una delle mie poche “Images à la sauvette”.

 

 

7. Mercato presso lo stadio, Varsavia.

Una volta mi trovavo a Varsavia, era la prima tappa del nostro viaggio di capodanno in Polonia, che avevamo raggiunto dopo un giorno di treno via Vienna. Arrivati alla stazione centrale trovammo nebbia, così fitta che non riuscivamo a vedere la cima del regalo che il  popolo sovietico aveva fatto agli “amici” polacchi anni prima: un orribile palazzo altissimo in classico stile socialista. Nebbia e poi neve grigia sulle strade che si stava sciogliendo. Bienvenudos a Warsaw!

Il tipo che ci aveva prenotato l’albergo (amico di amici) ci fece un po’ da guida in quei giorni, una volta ci portò nei pressi di un gigantesco stadio, una specie di cratere ai margini della città. Tutt’attorno c’era un mercatino di cianfrusaglie, per lo più gestito da cittadini dell’Unione Sovietica, che vendevano tutto quello che l’allora URSS produceva: caviale, macchine fotografiche, orologi, binocoli, colbacchi, spille con i simboli del comunismo.

Mentre giravamo tra quelle bancarelle improvvisate guardai verso il fondo del cratere, e fu in quel momento che mi accorsi di questo signore che da solo, in mezzo a gradinate che avebbero potuto ospitare decine di migliaia di persone, si guardava attorno, cercando di scaldarsi in mezzo alla poca neve non ancora sciolta mossa dal vento.

 

 

8. Orologiaia, Cracovia.

Una volta mi trovavo a Cracovia, erano i primi giorni di gennaio, faceva abbastanza freddo ma non quanto avessi immaginato prima di arrivarci.

La città iniziava a vedere i primi turisti occidentali, visto che il muro di Berlino era caduto da qualche mese, ma gli abitanti e i negozi del centro sembravano non prestar loro molta attenzione. A parte qualche negozio che vendeva souvenir con le immagini di Karol Wojtyla, incluso un bellissmo zerbino che onestamente mi tentò parecchio, quasi tutte le attività commerciali erano rivolte ai residenti.

Una sera, tra le vie del centro, vidi un’orologeria che non si limitava a vendere gli orologi, ma che anche li aggiustava. L’uomo e la donna che ci lavoravano dentro sembravano marito e moglie, o comunque fu così che decisi io.

Era buio, mi appoggiai con la spalla alla vetrina e cercando di tenere la mano più ferma possibile immortalai la “moglie”, intenta a controllare un orologio: sembrava quasi una scena di un film di spionaggio.

Vi assicuro che se anche avessi usato una pellicola a colori il risultato non sarebbe stato molto diverso da quello che vedete qui.

 

 

9. Civitanova Marche, Macerata.

Una volta mi trovavo a Civitanova Marche, c’era questa specie di mercatino di antiquariato, o almeno questa credo fosse l’idea originale. L’impressione era invece quella di un paio di garage svuotati con una certa fretta. Una serie di oggetti, appena spolverati giacevano su di banchetti improvvisati, distribuiti su di una strada diventata pedonale.

Mentre camminavo senza prestare molta attenzione vidi una vecchia signora riflessa in uno specchio appoggiato al banco di un tizio che vendeva vecchi grammofoni.
Un attimo, uno scatto, penso che la signora non se ne sia accorta.

 

 

10. El Paso, Texas.

Una volta mi trovavo a El Paso, in Texas.  Ero arrivato negli USA nel giorno del decimo anniversario della morte di Elvis, circa sei mesi dopo il mio 18esimo compleanno.

Lavorando come irregolare nella cucina di un ristorante di Los Angeles mi ero messo via un po’ di soldi (a dirla tutta ero ospite di una specie di zio, piuttosto facoltoso, e questo rendeva la mia vita molto più facile)  e avevo deciso di investirli per acquistare un pass mensile dei bus Greyhound ed attraversare tutti gli Stati Uniti partendo dalla Caloifornia. Dopo qualche giorno di viaggio arrivai in Texas, in questa città di confine, così colsi l’occasione per andare in Messico, cioè attraversare il ponte pedonale che separa El Paso dalla sua città gemella Juarez.

Vidi questo tipo che che camminava verso di me, percorrendo una specie di tunnel fatto di rete metallica. Cambiai al volo la lente della mia macchina e usando lo zoom (70-210 della Tamron, ndr), feci la fotografia che vedete, schiacciando grazie allo zoom la prospettiva quasi in modo innaturale.

Sarebbe stato pefetto inquadrarlo esattamente al centro dell’arco, ma si sa che non tutte le ciambelle riescono col buco.

 

 

10+1. Nazaré, Portogallo.

Una volta mi trovavo a Nazarè, in Portogallo. Avevo raggiunto questo piccolo paesino sull’Atlantico seguendo un improvvisato itinerario assieme alla mia novella sposa.

Nazarè è una cittadina “una e trina”, visto che si sviluppa in tre aree: la parte sulla spiaggia, al tempo abitata da pescatori, adesso trasformata in una specie di immenso B&B (e poi ditemi che il turismo è una cosa bella), la parte sul promontorio che domina la spiaggia e che guarda all’oceano (e alle sue enormi onde) e la città vecchia.

Eravamo arrivati la mattina, con la pioggia, ma già nel pomeriggio i veloci venti che soffiavano dall’Atlantico avevano spazzato via le nuvole, e poco prima del tramonto la luce era semplicemente incredibile.

Mentre ero sulla parte più alta del promontorio, per fotografare ed ammirare la spiaggia e l’oceano, vidi passare questi tre signori, tutti con il basco.

Non so di che cosa parlassero, ma mi sembrarono le persone più rilassate che avessi mai visto fino ad allora.

 

 

10+2. Santa Monica, Los Angeles.

Una volta ero a Los Angeles, spesso la mattina partivo da casa e percorrevo il Sunset Boulevard verso Santa Monica, in discesa. Che poi diventava salita al ritorno. Un giorno, prima di affrontare quella fatica mi fermai a mangiare qualcosa in una specie di tavola calda, l’ora della colazione era passata e quella del pranzo era ancora lontana, il posto era quasi vuoto.

Nel tavolino di fronte a me sedeva una ragazza dai capelli rossi che con una mano si teneva la guancia mentre con l’altra sfogliava la sua agenda, mentre finiva quello che pensai fosse il suo pranzo anticipato.

Lì, da sola, mi ricordò un quadro di Hopper. Appoggiai la macchina fotografica sul mio tavolino e feci partire l’autoscatto. Nel frattempo la ragazza aveva chiuso l’agenda e poco prima dello scatto sollevò lo sguardo, guardandomi senza vedermi, almeno così mi sembrò.

 

 

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. Nicoletta Zanon ha detto:

    Finalmente il nuovo post è arrivato! Ironico, malinconico e affascinante come sempre. E che bella sorpresa le foto!

    Piace a 1 persona

    1. Il Poltronauta ha detto:

      Grazie! ❤️

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  2. Andrea Coco ha detto:

    Complimenti, semplicemente. Sarà perchè credo nell’universo femminile, mai due scatti di donne mi hanno colpito.

    Piace a 1 persona

    1. Il Poltronauta ha detto:

      Grazie Andrea!

      "Mi piace"

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